Piace molto agli italiani il tiro ai Grandi. È uno sport diffusissimo e tanti sono i Grandi abbattuti nel tempo, da millenni. In ogni campo, dalla politica ai giochi. Ai tempi nostri – l’impero dei mediamen – ce ne rendiamo conto più facilmente. Basta guardarsi intorno per accorgersi di essere circondati da mezze figure collocate in ambiti di grande responsabilità. È la pena del Paese che i Grandi li invoca, li adora e appena può li abbatte.
Secondo procedura, il solo annuncio dell’arrivo di una figura d’alto livello viene salutato con gioia, sentendosi meritevoli di tanta attenzione. L’apparizione fisica del soggetto dà poi la stura a festeggiamenti clamorosi e infiniti, il tripudio è accompagnato da fescennini e articolesse. E il sole splende sulle umane miserie.
Fino all’ora del tramonto. L’ho menata lunga, ma avete capito di chi parlo: di José Mourinho, il Mou che in pochi mesi è diventato il Mah, trascorrendo dall’audace certezza ai vili dubbi. Da settimane sento ripetere che è bollito, non è più lui, e che ci aspettavamo di più. Lunedì qualcuno mi ricordava con una certa soddisfazione che ha sette punti meno di Fonseca (lo rivolete?) pur avendo fatto spendere milioni ai Friedkin. E poi non ha gioco e che importa se a Reggio i suoi hanno fatto una serie di errori senza senso.
La Roma ha uno dei tre allenatori più Grandi del calcio mondiale, il più vincente (altrove) della storia di un club che in 96 anni ha conquistato soltanto tre scudetti e che da 5mila e passa giorni segna zero tituli sul diario. Eppure in sei mesi – e potendo prendere soltanto delle seconde e terze scelte – Mou da Medjugorje avrebbe dovuto cambiare con uno schiocco delle dita il corso della storia.
Se il tiro ai Grandi piace agli italiani – in questo campo basta rammentare l’ingratitudine che subì Vittorio Pozzo, le pene infinite di Enzo Bearzot, il voltafaccia dei sacchiani, il ripudio di Bernardini e Ancelotti, Allegri e Capello – per i romani è una specializzazione secolare, da Cesare in giù – per dire – una strage dì potenti, vincitori, salvatori della patria, uomini della provvidenza.
Nel calcio si raggiunge il meglio e sta rendendosene conto il portoghese che prima d’accettare la panchina giallorossa s’era certo informato delle opere dei suoi predecessori, dico di quelli che hanno vinto. Poco, ma bene. Dotati – è storia – di campioni assoluti e comunque di squadre importanti e potenti davanti alle quali la Roma di Mourinho arrossisce.
Il Liedholm di Falcao si prese tutto il tempo necessario per vincere il campionato; mentre Capello con Bati, Totti, De Rossi e Samuel, tanto per dire, fece subito centro addirittura sollecitato da uno scudetto laziale; nel suo caso si arrivò al tentativo di abbattere il vincitore, cerimonia che Fabio sventò andandosene per i cazzi suoi.
Lo stesso Mourinho, prima celebrato come Special e oggi discusso, colse il mitico Triplete nella seconda stagione nerazzurra. Che oggi debba subire il “tutto e subito” di una masnada di impotenti detrattori è scandaloso. E per fortuna non risiede all’Hotel Raphael, spesso evocato in questi giorni per altre ricorrenze.
FONTE: Il Corriere dello Sport – I. Zazzaroni