Gira e rigira, per spiegare l’inspiegabile, finiamo sempre per chiedere aiuto a Kunt. Se il famoso marziano di Flaiano tornasse dopo sessant’anni con la sua astronave dentro Villa Borghese, avrebbe occhi vergini a sufficienza per restare sbalordito dalle vicende del calcio a Roma.
Non esiste un altro posto dove una squadra possa vivere il suo arco di trionfo, fare il giro di campo tra la folla in estasi, un attimo dopo aver pareggiato contro un’avversaria appena retrocessa, col rischio di aver pregiudicato la qualificazione alle Coppe, con la certezza di essere dietro ai rivali del municipio a una giornata dalla fine.
È una scena fuori dal canone. Stride con ogni criterio che ci piace chiamare logica. In sedici delle sue ventisette partite, la Roma ha riempito lo stadio fino all’esaurito, con oltre un milione di spettatori in tutto, 63mila e 243 persone sabato sera, 21mila abbonati, oltre 20 milioni di incasso dalla vendita settimanale ai botteghini. Questo è il posto che ha sfidato la Lega Calcio per non farsi sottrarre il rito magnetico dell’unico grande amore con Venditti e delle braccia con le sciarpe al cielo.
Questo è il posto che nella disfatta dolorosa canta. Con José Mourinho il tifo di Roma ne ha costruito uno del genere. Un rapporto trascendente, oltre la realtà, indiscutibile, più simile alla devozione che all’amore. Non sarà una finale di Conference League a spiegare cosa tiene in piedi questo incantesimo, nonostante un campionato fuori dalle prime cinque, con 10 punti in meno rispetto al primo anno del crocefisso Fonseca.
Due portoghesi e due significati di segno opposto della stessa parola: pregiudizio. Una semifinale di Champions non è stata un’apertura di credito duratura per Di Francesco, né i podi ripetuti di Spalletti sono stati archiviati in modo differente da altre sconfitte. Agli occhi di un osservatore inglese, Mourinho è l’allenatore che nelle dodici stagioni portate a termine tra 2003 e 2015, ha fatto undici volte primo o secondo, al massimo terzo; ma nelle tre successive – le tre più recenti – ha due esoneri e un sesto posto.
Su questa specie di montagna russa, Mourinho ci sta a suo agio, molto meno alieno di quanto sia stato raccontato, così romano anzi, in una delle primissime rappresentazioni in sella a una Vespa.
Eppure, è con gli alieni che Roma si è elevata sopra la routine e ha mescolato le carte. Con i Liedholm e i Capello, i Maestrelli e gli Eriksson. La Coppa di Tirana, comunque vada, non sarà la spiaggia del giudizio finale su José. Non è una Coppa che la sua parte di Roma gli sta domandando tra le righe del culto. Gli stanno chiedendo molto di più, un’avventura, un’ipotesi, un castello in aria. Gli stanno chiedendo di avere sempre un coniglio in un cilindro. Non deve possederlo per davvero. A noi che amiamo, basta che ce lo faccia credere.
FONTE: La Repubblica – A. Carotenuto
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