Perché il legamento crociato del ginocchio si rompe sempre più spesso, soprattutto per traumi senza contatto? Perché in Serie A ne sta saltando in media quasi uno a settimana? Di chi o di cosa è la colpa? Esiste una soluzione, o meglio ancora una prevenzione?
Siamo andati alla ricerca delle cause dopo aver preso coscienza della «maledetta» attualità: 11 squadre su 20 del campionato italiano hanno almeno un giocatore ai box per problemi al crociato e sono già 5 i crack in questo inizio di stagione. Vanheusden (Inter), Conti (Milan), Milik (Napoli), Tumminello (Crotone, propietà Roma) e Letschert (Sassuolo) sono le «vittime» della sfortuna, ma non solo. Perché la cattiva sorte non basta a spiegare un fenomeno sempre più diffuso. Basti pensare che il Prof. Mariani, uno dei migliori chirurghi in circolazione, ha operato 180 atleti in quest’anno solare e, se prima aveva una media di un crociato per squadra, adesso il numero è salito a 1 e mezzo. Il responsabile sanitario del Milan, Mario Brozzi, ci ha rivelato due fattori che possono portare alla rottura del legamento: «La predisposizione individuale, soprattutto nei casi di danno bilaterale (come Milik, ndc), e l’aumento del tempo di esposizione. Ci si stanca di più, per cui diminuiscono le attenzioni cettive. Abbiamo creato Milan Lab e in passato Roma Lab, ma siamo distanti da tutto questo». Dal mettere a fuoco il problema principe che causa l’effetto domino. «Io – continua Brozzi – ho la teoria del quadrilatero: se allenatore, medico, preparatore e terapista hanno una relazione di fiducia, si può creare un rapporto di difesa importante e avere una premonizione dell’infortunio». Fermare un giocatore prima che sia troppo tardi. Nel calcio moderno ha preso piede una somministrazione ridotta degli allenamenti di forza: meno corse e carichi, più calci al pallone. Conseguenze? La muscolatura della coscia si indebolisce e diminuisce la protezione sul ginocchio. «Alcuni – ci ha confessato un preparatore atletico – fanno l’errore di allenare solo i muscoli, non il cervello. È come mettere la centralina di una Cinquecento su una Ferrari: prima o poi si rompe il motore. C’è chi ancora usa le macchine isotoniche, ma danno impatti sul ginocchio che non fanno bene».
Tecnologia non sempre è sinonimo di progresso. Meglio spendere soldi per ottimizzare la tenuta dei campi di gioco e di allenamento, e uniformarli: se tutte le squadre di Serie A giocassero sullo stesso tipo di terreno, sia esso in erba naturale, sintetica, o mista, il calciatore sarebbe «collaudato» per ogni partita. Le diverse sollecitazioni provocano uno squilibrio, il corpo deve adattarsi alle novità e capita che qualcuno resti con il prezioso piede incastrato per terra. All’estero i campi hanno un fondo di qualità migliore, Real Madrid e Psg hanno investito sull’agronomo e grazie alla selezione di un tipo di seme riescono a garantire la praticabilità dei terreni per tutto l’arco della stagione. La soluzione è investire di più nei campi. Come? Con gli stadi di proprietà. Il Comune ha un interesse limitato nell’offrire un servizio top, ma se le società avessero un loro impianto potrebbero permettersi di fare follie per offrire uno strumento di lavoro perfetto ai propri dipendenti. Che con i loro piedi fruttano milioni, anche grazie ad una moda che li danneggia: «Gli scarpini vengono cambiati con più frequenza per ragioni commerciali, ma così – parola di chi lavora sui campi da una vita – viene meno l’abitudine che permette al piede di ricevere le informazioni corrette. Si altera il segnale. I tacchetti lamellari hanno rimpiazzato quelli cilindrici, ma aumentando il grip col terreno, cresce pure il rischio di torsione del ginocchio». C’è chi sostiene, però, che «sono già passati di moda».
A Trigoria l’introduzione del sintetico per le squadre giovanili ha avuto un forte impatto sulle gambe dei baby, che hanno partecipato alla maledizione dei crociati dei «grandi»: 10 giocatori, dal 2014 ad oggi, sono finiti sotto i ferri, 5 erano titolari della Roma, vedi Palmieri, Florenzi (due volte), Rudiger, Mario Rui e Strootman (tre), gli altri ragazzi come Ponce, Capradossi, Nura, Luca Pellegrini e Kastrati. «Bisogna farsi delle domande – suggerisce il preparatore atletico – quando ce ne sono 10 in un club. Si possono analizzare i metodi di allenamento, l’intensità e i mezzi usati, ma vanno considerati anche l’aumento delle partite e la storia personale di ogni calciatore». C’entra anche la velocità di gioco, che secondo Spalletti «esaspera il gesto». D’accordo Di Francesco: «Sono cambiati i ritmi, poi magari si fanno 4 ore di viaggio in aereo e i muscoli piegati non sono certo aiutati. Si deve riflettere e cercare di migliorare». L’Uefa ci sta provando dal 2001, quando ha iniziato una pubblicazione di studi per la prevenzione degli infortuni: in oltre 15 stagioni ha rilevato 13 mila ko e 1.800.000 ore di esposizione nelle 50 squadre analizzate in 18 paesi diversi. Tra le varie cause sta vagliando un’altra possibilità: l’incidenza del cambio degli allenatori. Emerge, dunque, che la variazione dei campi, dei sistemi di allenamento, degli scarpini e degli stessi tecnici può danneggiare i giocatori. La cura? Un calcio nel segno della continuità.