Il magnifico selvaggio. “Tifosi, sosteneteci anche quando Totti non c’è”. Ci voleva quel magnifico selvaggio di Nainggo per lanciare un ovvio quanto scandaloso appello in una città infestata da tifosi idolatri e imbonitori ruffiani. I peggiori tifosi del pianeta. Di gran lunga. Genuflessi al cospetto della Vacca Sacra, hanno buttato la propria squadra nel cesso dell’abbandono e dell’indifferenza, della fucilazione ipercritica nella migliore delle ipotesi. Ci si abitua a tutto.
L’Olimpico è diventato un deserto tartaro inutilmente attraversato dall’urlo vendittiano. Un nastro assurdo. Beckett in versione stadio. Scosse che non servono a rianimare il cadavere. Solo se e quando si alza dalla panca la sagoma del Capitano, magari per scrollarsi una mosca di dosso, il cimitero comincia a vibrare. I narcolettici riscoprono il brivido erotico della febbre da stadio. Tutti lì a spiare il minimo gesto del loro Vitello d’Oro.
Tutto questo, prima ancora che deprimente, è sommamente cretino. Confessa l’obesità mentale, la pigrizia di un gregge suddito, eternamente bisognoso di perpetuare la sua funzione passiva, il versante più comodo della vita. Idolatrare invece che tifare, latrare invece che amare. Gente che sembra aver dimenticando e azzerato i canoni elementari di quel demenziale e mistico delirio che è il tifare la propria squadra.
In nessun grande club del mondo, passato e presente, il campione ha soppiantato la maglia che veste, riducendola a straccio da pestare. Che si chiamino Messi, Ronaldo, Giggs, Riquelme, Del Piero, Maldini, Van Basten o Crujff. Persino il Napoli, con tutti gli sbandamenti del caso, ha continuato ad esistere dopo Maradona. Ok, evitate di ricordarmelo, la storia di Totti è unica. Fuoriclasse irripetibile, romano e romanista, iscritto nella ristretta lista del classici viventi e calcianti. Tutto vero. Ma proprio per questo, soprattutto per questo, la storia è deludente.
L’eroe è fondamentale, ma solo se aiuta i suoi nel cammino della terra promessa, non li perpetua nella palude dell’adorazione. Fuoriclasse assoluto, chi lo discute è un mentecatto, che spennella quarantenne calcio giottesco, Totti sembra più affezionato all’idea del leader protagonista che tira fuori i suoi compagni calimeri dalla merda con tutte le bovine ovazioni del caso che al leader totale che si fa sentire e “agisce” anche da fuori, nei titoli di coda invece che in copertina, quando la merda è fino al collo.
Questo non mi piace. Questo mi delude. Proprio perché amo l’eroe Totti. E mi aspetto che sia lui a rinsavire un popolo rimbecillito, traghettandolo dall’amore per sé a quello per la squadra del cosiddetto “cuore”. La questione non è se il ragazzo può o deve continuare fino a che i suoi piedi canteranno. Ma perché questo debba uccidere tutto ciò che è Roma fuori di lui.
A questa patologia da calcio terzomondista si aggiunge, tanto per guastare definitivamente il piatto, il becerume di quel trivio agonizzante che è la cosiddetta comunicazione romana. Carogne di ogni tipo banchettano alla facile mensa del Campione Mitologico. Giornali morenti che si attaccano cinicamente a tutto, alla braciola scadente e scaduta del campione di Porta Metronia, pur di vendere due copie in più in una piazza più tottista che romanista, peripatetiche dell’opinione che si affacciano ogni tanto a Trigoria, trovando il comodo rutto della demagogia spicciola. Il massimo, il peggio, è quando s’imbastisce la più dozzinale delle truffe mediatiche. Spalletti contro Totti.
Romanisti veri. Lucio Spalletti da Certaldo è oggi il romanista più romanista che c’è (aggiungo da ieri l’indonesiano con la cresta). Da tifoso autentico ha capito subito il potenziale veleno della divisione, ha cercato di esorcizzarlo in tutti mondi, non facendo i conti con la coda del diavolo, una storia idolatrica che si è nel frattempo alleata a Belzebù, trasferitosi nei piedi di Totti e nel suo puntiglio di metterla nelle chiappe di chi, secondo lui e il suo entourage, trama contro. Idea poveraccia.
Ma così è. Spalletti si è speso in tutti i modi con la parola e con i fatti per riconnettere il popolo giallorosso alle tette della Lupa, ma ad oggi il fallimento sembra evidente. Belzebù comanda e Lucio arretra, legittimamente turbato dalla violenza degli idolatri e delle orde belvette, scriventi e oranti.
Il risultato è che la squadra, Nainggo finalmente l’ha detto, ha incorporato il concetto rovinoso che può essere amata solo portando l’insegna di Totti. “Ma no, i giocatori devono dimostrare il proprio valore a prescindere dal comportamento dei tifosi”, si sente di dire Abel Balbo. E che minchia c’entra? Soprattutto se, due righe prima, dici che il tifo a Roma è decisivo. L’amore è una spinta a essere migliori. Giusto? Vogliamo contestare anche questo? Portiamo le comparse negli stadi al posto dei tifosi. Siamo sulla buona strada.
Idolatrando Totti, si rischia di buttare via tutto il resto. A cominciare dal bambino, in questo caso Spalletti. Che è, invece, non solo il più grande romanista oggi ma anche l’unica, vera, strepitosa novità di un calcio italiano dominato da mediocri certezze (la Juventus ha già vinto il suo quinto, sesto, decimo campionato consecutivo) e miserabili viltà (la testa sotto la sabbia, il non voler riconoscere i problemi enormi di un sistema che collassa).
Ci vuole passione. Ci vuole energia. Spalletti è tutto questo. Abbiamo esaltato a suo tempo la comunicazione furbastra di quel manipolatore perverso di Mourinho. La comunicazione di Spalletti è ben altro. E’ la grande novità. Una nuova frontiera. Svolta radicale. Lievemente appannata negli ultimi tempi da risultati scioccanti e risposte ambientali ultrà becere.
Ma il fenomeno resta. Le sue conferenze stampa, quasi tutte, sono piccoli eventi. Un punto di non ritorno. C’è un prima e c’è un dopo. Prima di Spalletti, l’allenatore medio comunica per non comunicare, disinnescare contenuti potenzialmente “destabilizzanti”, portare a casa il “successo” di quel che si dice lo 0 a 0. Rimestare la zona grigia del dire e del non dire, tutt’al più inviare messaggi cifrati, alludere, ammiccare, magari fustigare il giornalista fellone.
Nella migliore (o peggiore) delle ipotesi, la conferenza stampa come pretesto per uno show carismatico, in vista anche di buoni ingaggi pubblicitari (Mourinho su tutti, ma gli stessi Guardiola e Conte, più cerebrale il primo, più muscolare e tarantolato il secondo, impongono il fascino vibrante della loro personalità).
Nella chiave della negazione degli astanti, il genio assoluto è Bielsa. Fissare lo sguardo a terra è di per sé la postura che cancella l’interlocutore, gli nega il diritto di esistere (in molti casi, questa cancellazione del prossimo in conferenze stampa affollate di tanti stronzi, va salutata come una benedizione).
In un certo senso, anche la comunicazione di Spalletti realizza l’effetto di negare il prossimo. Ma, al contrario, per eccesso di generosità. Un paradosso. Sposta talmente in alto l’asticella della parola da costringere l’”altro”, l’astante, a misurarsi con vette e temperature cui non è abituato o a cercare di farlo (esente naturalmente da questo l’insanabile idiota che non percepisce nulla di quanto accade, in questo caso l’aura, l’oro, della parola).
La comunicazione di Spalletti, al suo meglio, ha qualcosa di zavattiniano o fallaciano. Così febbrile. Così follemente generosa. Questa urgenza della verità, lo scandalo della verità, al confine della patologia. Tu sei qui per riempire il tuo taccuino o il tuo smartphone di frasi fatte? E io, invece, ti dico tutto, anche e soprattutto quello che non dovrei dirti. Scandalo notevole, in un mondo dove vale la pulsione opposta, la parola omertosa sotto forma di luogo comune. Uffici stampa strapagati o malpagati per organizzare la recita del non dire.
Ok. Lo so. Non ricordatemelo. C’è un ego ridondante di mezzo. Ma, generosità e vanità si combinano necessarie nella statura di un leader che comunica. Io, Spalletti, m’inoltro a dire l’indicibile, fino alle confidenze da spogliatoio, spiegarvi quello che non potete capire, arroventarmi in spiegazioni tattiche sofisticate, rispondere a tutto, senza maschere, anche a ciò che è irricevibile, inaugurando una svolta liberatoria della parola nel mondo cane del calcio.
Ma anche una possibile etica. Dentro una scena dominata dall’urgenza barra passione della verità, alias mostrarsi nudi, la parola come fosse la propria carne, si prefigura l’ipotesi di un mondo migliore. Certo, mille volte più interessante da praticare. Si sbaracca il teatrino delle meschine identità sigillate nel proprio compitino molto egoico e poco eroico, per esplorare un altrove. Non sai dove porta. Forse a romperti il muso. Ma viva!