Sette viaggi della speranza verso Torino; sette ritorni disperati a Roma. Sempre la stessa storia, da quella prima volta – gennaio del 2012 – nello Stadium bianconero. Campionato o coppa, sette partite e sette sconfitte. Una tassa. Juve padrona, Roma a testa bassa. Spesso umiliata, oltre che battuta. Inutile anche cambiare via via uomini e allenatori: niente da fare, zero punti. E così, alla vigilia dell’ottavo tentativo, non puoi fare a meno di pensare che – ancora una volta – tutto sia fatalmente già scritto, anche se la tua difesa non è mai stata così robusta. Pensi; anzi, speri che la novità sia un segnale, che la lieta novella attesa da quasi sei anni sia vicina. Perché la fiducia (o la follia?) non ti ha mai abbandonato, neppure quando ti sei presentato con Kjaer e José Angel dietro e Gago e Marquinho in mezzo.
MENTALITÀ – Poi, però, quando vedi che Benatia, un tuo ex, riesce a farti male, molto male con una giocata simile a quella subita qualche giorno prima in coppa contro il Torino, ti viene meno qualsiasi tipo di certezza. Ma come: calcio d’angolo, palla alta e ancora un gol dopo un flipper irrazionale a due passi dalla linea bianca? Primo svantaggio lontano da Roma, a guardare le statistiche. E, durante l’intervallo, l’interrogativo sempre di moda: cosa fare, e come e con chi farlo, per ribaltare la situazione? Porta juventina inviolata da sette partite e mezza, mica facile riuscirci. Ma che fai: ti arrendi? No. Mai. Un po’ (tanto) di veleno in più, comunque, non guasterebbe. Possibile che quelli della Juve non perdano mai un contrasto, giocando ogni pallone come se fosse quello decisivo per le sorti della partita? Roma molle, invece. Mai veramente cattiva. A tratti, perfino impaurita. E, anche per questo, incapace di dare una svolta alla partita. Ecco la prima mossa di Di Francesco: dentro Schick. Forte la sensazione, però, che non sia un problema di uomini, ma di mentalità. E, non a caso, con meno paura nelle gambe, con più coraggio ecco la traversa di Florenzi. Un lampo tanto per dare spazio ai soliti rimpianti, acuiti dall’erroraccio di Schick praticamente allo scadere. Rammarico per quello che poteva essere e che non è stato, ripensando pure alle prestazioni balbettanti di troppi singoli sul piano tecnico. La conferma che c’è ancora bisogno di crescere, mentalmente innanzi tutto, per avere ambizioni di primissimo piano. La maledizione dello Stadium c’entra, ma fino ad un certo punto. Sarà per la prossima volta, forse.