I loro occhi seguono traiettorie che gli altri non capiscono. Incollati a un numero sulla maglia di un ragazzo che corre. Ti seguono da una vita. Attenti e timorosi. Sono gli occhi dei papà e delle mamme. Persino delle nonne. Che si fanno lucidi e appannati quando tu sei davanti al mondo. Per giocare la tua partita. Ed è sempre come la prima volta. Il campetto dell’oratorio o lo stadio Olimpico sono la stessa cosa. Occhi che gioiscono. Ridono. Soffrono. Come quelli di Luigi Florenzi, il papà di Alessandro, talentuoso calciatore della Roma, che ha avuto un malore quando il figlio ha sbagliato il rigore, domenica scorsa, contro la Samp. E non era solo per il gol mancato. Francesco De Gregori aveva già capito tutto. Il cuore del suo Nino (dodici anni e le spalle strette) era sempre «pieno di paura» quando andava sul dischetto. Ma il cuore di un papà? O di una mamma? È ancora lì a chiedersi come proteggere il suo piccolo. Anche se è alto due metri e ha le gambe di un ghepardo che sfreccia: e viene in mente la corsa di Balotelli ad abbracciare la madre Silvia, a Varsavia, dopo il super gol segnato alla Germania. C’è ancora il bambino che ha fatto contenta la mamma. Quello che risponde sì con la testa quando lei gli chiede se «hai sotto la maglietta che se sudi ti viene un accidente?».
Cuori nella tormenta quelli dei genitori. Sono i tifosi speciali, che vedono sempre un’altra partita. E il risultato finale non è scritto sul tabellone dello stadio. La loro pagella è diversa da quella dei giornalisti. Per prendere un bel voto basta finire la partita. Senza botte o graffi. I figli crescono più equilibrati se i genitori sono presenti. Lo dice il buon senso, oltre che uno studio dell’università di Oxford. Ma parlano della presenza quotidiana. Mica di chi viene a vederti giocare. Ci sono campioni che li implorano di stare a casa. Ci sono i genitori-padroni che magari finiscono in un libro di successo. Il papà di Agassi. E quelli che ci sono passati prima. I Maldini, padre, figlio e nipoti. Con il Maldini 3.0 che, ormai, vedere la famiglia non gli fa più neanche impressione. O il papà di Hamsik che si tatua il volto del figlio sulla pelle. C’è l’orgoglio e la nostalgia. Keke Rosberg che si siede in un angolo del paddock e guarda il figlio Nico. Il campione con un casco da astronauta cresciuto in fretta come un bolide. E ci sono i papà che non possono nascondersi. E basta alzare gli occhi per capire che Kobe Bryant è uguale uguale a quel signore seduto in tribuna che copre la vista di chi gli sta dietro. Ma a «tradirlo» sono sempre e solo gli occhi.