L’inventore di campioni. Quando pensiamo ad Alberto De Rossi, o vediamo una partita della sua Primavera, è questa la prima immagine che ci viene in mente per fotografare quello che è stato, è e sarà per la Roma. Solo in seconda battuta, peraltro pure a una certa distanza, il pensiero è che è il papà di Daniele, il Capitano, la giugulare, un amore sconfinato per quei colori che ci fanno battere il cuore. In quasi venticinque anni nel settore giovanile giallorosso, Alberto De Rossi ne ha tirati fuori una vagonata di giocatori che hanno fatto strada. Che, volendo fare i commercialisti e tralasciando quelli che poi sono saliti in prima squadra, alla Roma hanno garantito decine e decine di milioni di euro. Poche settimane fa, il tecnico ha festeggiato le seicento panchine con la Primavera con cui ha vinto tre scudetti, due Coppe Italia, due Supercoppe italiane, successi che sono andati ad arricchire un palmares che comprende anche uno scudetto con i Giovanissimi Nazionali. Appunto, un inventore di campioni. Ma non solo. Perché De Rossi senior, prima che un allenatore in gamba, è una persona per bene, che conosce la vita e gli uomini. Per capirlo non c’è bisogno neppure di parole, basta guardare De Rossi junior. E allora con lui abbiamo voluto fare un bilancio di queste oltre seicento partite, sapendo che le sue risposte avrebbero sempre avuto i pregi dell’onestà e della competenza.
Alberto, si ricorda la prima volta con la Roma? «Benissimo, anche se sono passati quasi venticinque anni».
Allora la ricordi pure a noi… «Estate 1993. Sarà stato il 24 o il 25 luglio. Io ero nella mia Ostia. Al mare. Stavo facendo il bagno. Mi dissero che era squillato il mio telefono».
Chi era? «Bruno Conti».
E che le disse? «Che un allenatore delle giovanili se ne era andato. Mi chiese se mi andava di sostituirlo. La mia risposta fu un sì entusiastico».
Poi cosa successe? «Andai subito a Trigoria. Mi presentai direttamente nell’ufficio di Agnolin che all’epoca era il primo dirigente della società. Una grande emozione, un’ora di colloquio, ne uscii da allenatore delle giovanili».
Subito in panchina? «Subito. Iniziai ad allenare i più piccoli, i Pulcini, la classe del 1984. Non mi andò male».
Cioè? «In quell’annata c’erano ragazzini che poi hanno fatto strada: Aquilani, Ferronetti, Corvia, Mantioni, Stillo, Piva, Viscontini, Ricozzi, Servi. Un gruppo fantastico».
Quanto rimase con loro? «Quattro anni. Un periodo meraviglioso, culminato con lo scudetto Giovanissimi Nazionali a Catania. Una giornata indimenticabile per il nostro settore giovanile. Vinsero lo scudetto anche gli Allievi Nazionali allenati da Mauro Bencivenga. E poi diversi di quei ragazzi sono arrivati in serie A, qualcuno pure in Nazionale».
Dopo? «Ancora Giovanissimi Nazionali, classe 1985, arrivammo in finale, perdendo con il Torino. Pure qui un bel gruppo. C’erano anche Curci e Galloppa».
Altri due che sono arrivati nel calcio che conta… «Curci era un buon portiere, è arrivato in prima squadra, poteva fare di più. Anche Galloppa è arrivato in serie A, poi è stato frenato dai troppi infortuni».
Dopo i Giovanissimi, c’è stato il salto negli Allievi… «Un salto naturale. Ci sono rimasto quattro anni. Ho avuto notevoli soddisfazioni in campo, due finali e una semifinale, ma soprattutto riuscimmo a fare un grande lavoro con il biennio ‘86-‘87, gruppo che poi avrei ritrovato più avanti e che per la Roma è stato molto prolifico visto che parecchi di quei ragazzi sono poi arrivati nel calcio dei grandi».
E poi, finalmente, l’approdo alla Primavera… «Stagione 2003-04 e in quella Primavera ritrovai i miei ragazzi del 1984 che ho avuto la fortuna di allenare in tutte e tre le categorie. Con loro ho condiviso momenti bellissimi, ho ricordi emozionanti ma purtroppo anche dolorosi come la prematura scomparsa a 29 anni di Andrea Servi».
L’anno successivo, 2004-05, fu subito scudetto… «Era una squadra fortissima. Un biennio di grande qualità, c’erano Cerci – un fenomeno, che non ha reso per quello che poteva – Rosi, Marsili, Grillo, Simonetta, Greco, Virga. Prima delle finali, però, ci capitò qualche sfortuna».
Quali? «Simonetta, che era bravissimo, si fece male e Cerci, che aveva esordito in A con Delneri, si infortunò con la prima squadra. Ci pensò Bruno Conti a sistemare le cose».
Come? «Fece salire in Primavera Corvia e Scurto, altri due ragazzi che poi hanno conosciuto la serie A. Furono determinanti per la vittoria».
La prima vittoria non si scorda mai… «La ricordo con grande orgoglio, soprattutto perché giocavamo sotto età. In semifinale riuscimmo a battere la Juventus di Criscito, Marchisio e De Ceglie».
Andò bene anche l’anno dopo, no? «Sì. Pure se perdemmo la finale scudetto e quella del torneo di Viareggio. Ma la mia soddisfazione è stata che di quella squadra esordirono in A tanti ragazzi».
Ovvero quello che deve essere l’obiettivo prioritario di un settore giovanile… «Vero. Al di là delle vittorie che pure fanno piacere, la soddisfazione più grande è vedere i tuoi ragazzi fare il salto in prima squadra».
Ha sempre lavorato con Bruno Conti? «Sì, almeno fino a un anno fa. Con lui abbiamo impostato il lavoro e raccolto i risultati».
Si ritiene un allenatore fortunato?
«La mia fortuna è stata quella di allenare in tutte le categorie. La mia è stata una crescita graduale, giusta, mirata, naturale. Quando sono arrivato in Primavera non ho sentito tanto la differenza, del resto ripresi il gruppo dell’84, il gruppo da cui ero partito. Ho insegnato e dato molto ai ragazzi, ma anche loro hanno dato tanto a me».
Come si rapporta con la vittoria e la sconfitta? «Ho vinto tanto, ma ho pure perso diverse finali. La delusione c’è, ma mi sono sempre detto che se arrivi in finale non hai fallito. Questo bisogna dirlo perché è vero che ho perso, ma è altrettanto vero che abbiamo fatto un percorso virtuoso per arrivare a quel punto».
Alberto De Rossi come vive il cambio di radici che vediamo nei settori giovanili? Ovvero, oggi ci sono quasi più stranieri che ragazzi italiani nei vivai… «Non ne faccio una questione di quantità, ma di qualità. Perché se gli stranieri sono forti, fanno crescere anche la competitività dei nostri ragazzi. La Roma, comunque, l’anno scorso, nella finale di Supercoppa contro l’Inter, aveva in campo nove ragazzi romani più Tumminello siciliano ma cresciuto con noi, più Keba».
Com’è Tumminello? «Fortissimo, ma per favore non diteglielo».
Ce la fa a farci una formazione con i migliori che ha cresciuto? «Curci, Ferronetti, Romagnoli, Antei, Marchizza, Florenzi, Aquilani, Viviani, Pellegrini, Bertolacci, Politano, Caprari, Okaka, Cerci, Corvia, Ciciretti, Greco, Mazzitelli, Calabresi, Ricci, Rosi, Tumminello, Verde, Verre… No, sono troppi. Considerando pure quelli che si stanno formando adesso, penso a Soleri, Di Livio, Machin, Bordin, D’Urso, Luca Pellegrini che sta tornando da un infortunio. Ribadisco, sono troppi, non posso fare una formazione».
A proposito di Luca Pellegrini. Ha un procuratore importante come Raiola, un vantaggio o uno svantaggio? «Diciamo che sono situazioni molto difficili».
I procuratori come hanno modificato il suo lavoro? «Una volta ce ne erano molti meno. In ogni caso non hanno modificato il mio lavoro. Con loro io per scelta non ho mai avuto e mai avrò nessun tipo di rapporto».
Tra i tanti che ha cresciuto, non c’è Daniele De Rossi… «Mi sono sempre rifiutato di allenarlo, sia nelle giovanili che in prima squadra».
Già, in prima squadra. Vero che poteva fare il salto nei grandi? «Ci sono state due occasioni in cui per farlo sarebbe stato sufficiente un mio sì. Risposi no».
Per Daniele? «Per Daniele. E mi sembra una scelta naturale. Per un padre è spontaneo non creare un problema al figlio. Lo dico serenamente, da genitore normale, senza voler fare l’eroe».
Molti papà non avrebbero fatto la stessa scelta… «Non lo so. So, però, che recentemente Eusebio Di Francesco ha dato la mia stessa risposta quando gli hanno chiesto se avesse avuto piacere a lavorare con suo figlio»
A proposito di genitori. Si dice che spesso siano troppo invadenti con i loro figli che sognano di diventare calciatori… «Da allenatore credo che la famiglia sia sempre fondamentale nel percorso professionale di un ragazzo. Parliamo di giovani che vivono un’età delicata per la loro formazione. Noi siamo di supporto, perché la Roma è attenta a tutti i dettagli, ma le basi familiari hanno un ruolo cruciale. Essere genitori non è semplice, soprattutto se si hanno dei ragazzi che fanno un percorso del genere. A volte aiuterebbe osservare l’allenatore come una persona e non come un tecnico, considerandolo una risorsa nel processo di formazione dei figli».
Ha avuto il rimpianto di non aver mai fatto il salto nel calcio dei grandi? «Assolutamente no. Il mio è il lavoro più bello del mondo, almeno lo è per me. Sono fortunato e mi sento un privilegiato. In passato ho avuto diverse offerte da club di serie B, ma ho sempre scelto di lavorare con i giovani. E poi, parliamoci chiaro, io sono alla Roma, un grande club».
Questa sua scelta si può spiegare in un solo modo: amare il proprio lavoro… «È così. Amare quello che si fa è un ottimo punto di partenza. Il resto ce lo devi mettere te. E questo è quello che ogni giorno cerco di trasmettere ai miei ragazzi, anche se so che non è semplice. Mi sento un privilegiato a poter fare quello che mi piace, ma questo non significa che arrivare dove sono arrivato sia stato un percorso semplice o che il risultato fosse scontato».
Ci dà la sua definizione di un buon allenatore di giovanili? «Certo non è quello che pensa a migliorare solo le prestazioni sportive dei suoi calciatori. Formare un ragazzo a quell’età, è un lavoro che richiede mille attenzioni non solo a livello tecnico o tattico. Alla Roma non ci limitiamo a formare solo il calciatore, ma vogliamo crescere uomini e professionisti».
In questo senso la Primavera è una tappa fondamentale… «Sì. È l’ultimo step prima di entrare nel mondo dei professionisti. Ed è la fase più delicata perché in questi anni si definisce la personalità dei ragazzi. È in questo momento che bisogna trasmettergli la necessità di saper reagire, non buttarsi giù dopo una sconfitta, voltare pagina ripartendo dopo aver capito i propri errori».
Anche a livello giovanile è importante il lavoro dello staff? «È fondamentale. Il mio è un lavoro di squadra. Per i ragazzi è importante riconoscere nello staff professionisti con cui si confrontano, un gruppo serio e compatto, soprattutto un gruppo su cui possono contare. Per noi non sono dei figli, ma la figura del Mister non è solo quella del tecnico ma anche di educatore. Bisogna saper insegnare ai ragazzi a essere adulti, a riconoscere certi valori e come comportarsi nella vita pure quando smetteranno di prendere a calci un pallone».