L’ex DS giallorosso, Walter Sabatini, ha rilasciato alcune dichiarazioni sul suo passato nella Capitale, sulla sua carriera e su… Totti:
Ma se pensa a un rientro pensa alla Roma? “No, non credo di meritarla più. Ho tenuto sempre la squadra a livello di grande competitività in un momento storico delicato. Ma oggi la Roma ha bisogno di una macchina perfetta, una Ferrari, lo sono una Due Cavalli tutta bozzata“.
In Totti ha visto più solitudine o egoismo? “In lui non poteva non esserci egoismo perché la vita lo ha condotto su quel sentiero e ce lo ha lasciato. E lui non ha avuto la forza intellettuale di liberarsi da una certa condizione. Non è mai riuscito a ragionare con il “noi”, ma sempre con l’io. La verità è che non gli hanno permesso di vivere: già a 17 anni non poteva uscire di casa. É sempre stato il Capitano l’Intoccabile. L’isteria che ho visto verso di lui è irriferibile e lui l’ha pagata con la solitudine. Ancora oggi è un ragazzo solo, tant’è che le cose che ha cercato di fare non è riuscito a farle”
Quando lei dice che Totti deve rientrare nel calcio lo dice con convinzione? “Si, perché sono certo che abbia sensibilità e capacità di giudizio. Non gli posso riconoscere la cultura che serve per vivere nel branco, però penso che meriti di essere un dirigente della Roma, con un taglio tecnico, non amministrativo. E non quello che fa Ibrahimovic al Milan, che è una cosa troppo generica. Gli devono dare un ruolo di responsabile del comparto sportivo: i mestieri si imparano. Però questi americani della Roma sono dei cialtroni, gente che non ha capito la città e il senso del possesso che ha la gente verso la squadra: una tifoseria come quella della Roma la devi conoscere, non puoi fingere che non esista, perché il Romanismo è un sentimento troppo potente, è una malattia“.
Che infanzia ha avuto? “Felice, ma mi porto dietro ancora oggi il senso di colpa per aver rifiutato davanti ai miei amici la merenda che mi offriva mio nonno“.
I sensi di colpa la tormentano? “L’immagine che racchiude tutto è quella di Aureliano Buendia in Cent’anni di solitudine, il mio libro preferito: il condannato e gli uomini del plotone d’esecuzione hanno la mia faccia“.
Mai sentito prigioniero del personaggio? “In qualche misura si. Del resto in un calcio cosi omologato si fa presto a essere personaggi. Penso al mio amico Sinisa Mihajlovic: la morte dei più giovani mi addolora sempre di più e mi fa venire un senso di vergogna“.
Com’è il piacere di scoprire un campione? “È un piacere intellettuale, lo sento come una bottiglia che si rompe dentro. Guardo una partita con la speranza di rimanere abbagliato dalla bellezza di una giocata, il calcio è vera arte“.
Come procede la battaglia con il suo corpo? “Sono un malato cronico ai polmoni e ai bronchi e ho due stent al cuore. Le mie giornate sono pigre, ritmi alti non ne posso tenere. Quando esco lo faccio con la sedia a rotelle perché mi si è spostata una vertebra e dopo la cementificazione mi ero montato la testa e sono scivolato dal letto, fratturandomi il femore. Sono tutto rotto ma il vero problema resta il respiro: per parlare senza affaticarmi devo usare l’ossigeno“.
La morte l’ha vista in faccia… “Si. nel 2018. Ma quello che mi tormenta è il coma farmacologico di circa venti giorni: ho incontrato chiunque sotto gli effetti dei farmaci. Sembrava cosi reale che mi causa ancora dei tormenti. Ho incontrato anche Dio sotto mentite spoglie, ma è stato un po’ deludente perché mi ha trattato con molta sufficienza”
Cosa le manca di più del suo lavoro?
“Il timore della sconfitta. Che è un cattivo compagno di viaggio ma è il senso di chi fa questo mestiere. La gioia di una vittoria non avrà mai lo stesso peso del dolore per una sconfitta“.
FONTE: La Gazzetta dello Sport