Uscirà la seconda parte dell’intervista che l’allenatore della Roma, Josè Mourinho, ha rilasciato a Federico Buffa nel programma “Federico Buffa Talks”. Qui sotto un’anticipazione della stessa:
(II PARTE) Di te si parla molto di come motivi i giocatori e meno delle tue intuizioni tattiche… “Questa è una narrativa a cui la gente crede, come quando si dice che sono un bravo comunicatore. Non si vincono tutti quei titoli solo essendo un bravo comunicatore”.
Cosa avevi visto nel caso di Eto’o? “Stiamo vincendo 3-1, mancano 60 minuti per andare in finale di Champions. Gioco contro la squadra più forte del mondo, sto con un uomo di meno. Vogliamo fare i fenomeni o lottiamo fino alla fine e andiamo in finale? Cosa facciamo? Facciamo storia o filosofia? Facciamo la storia, abbiamo fatto la storia”.
Diego Milito… “Bravo ragazzo con l’egoismo sano del numero 9 e l’altruismo delle grandi persone. Ci sono attaccanti i quali, anche se la squadra vince, non sono felici se non segnano loro. Lui non era così. Tatticamente, poi, il nostro modo di giocare era perfetto per lui. Eto’o e Pandev pure hanno lavorato. Con Sneijder, Eto’o, Pandev e Milito in campo, devono tutti difendere sennò tu non vinci una partita e loro lo facevano. Era una squadra di altissimo livello. Questi ragazzi erano straordinari, un gruppo di altissimo livello. Ovviamente, quando vinci un triplete è una cosa storica, fantastica, possibile solo grazie a questo senso di gruppo. Io dico sempre che non ho mai visto una panchina così dal punto di vista umano. Un gigante, gigante nel senso della sua carriera, come Toldo, stava in panchina. Ivan Cordoba stava in panchina, il campione del mondo Materazzi stava in panchina. Dejan Stankovic tante volte stava in panchina. Questa gente, bisogna essere veramente gente di squadra per avere questa empatia collettiva”.
Come erano gli allenamenti? “Erano partite. Tutti erano importanti in quella rosa e lo sapevano. Ricordo la gara contro il Barcellona, la gente era ai limiti della sofferenza e ricordo gente come Cordoba urlare che quella era l’ultima opportunità della loro carriera e tifavano chi stava in campo per incitarli a portarli in finale. Queste sono le vere medaglie per me”.
L’addio all’Inter e il passaggio al Real Madrid? “Sono sempre molto onesto con gli altri e con me stesso. Potevo andare al Real Madrid dopo la prima stagione all’Inter, però avevo firmato per restare più di un anno. Avevo un rapporto incredibile non solo con il Presidente ma anche con la moglie e i suoi figli. Sono andato a casa di Moratti al termine della prima stagione e siamo arrivati alla conclusione che sarei rimasto un anno in più. Non era la vittoria o la sconfitta nella finale di Champions League che avrebbe deciso la mia vita, già lo sapevo cosa avrei fatto e volevo andare al Real Madrid. L’opportunità è arrivata per la seconda volta e ho voluto andare via, era un momento della mia carriera dove mi sono detto che avrei dovuto farlo per forza. È il club più grande al mondo, non c’è storia ma avevo quella cosa di prendermi lo scudetto della Serie A. Al di là di vincere o non vincere la Champions League, c’era un lavoro di base che sarebbe andato a un altro allenatore, tutto era perfetto. Sarebbe stato più comodo per me restare all’Inter anziché andare in competizione con il Barcellona, avrei vinto un altro scudetto facile, saremmo andati a prendere la medaglia di campioni del Mondo per club ma per me non avrebbe avuto significato. I giocatori intelligentissimi sapevano già cosa avrei deciso, dopo la finale di Champions League non sono tornato a Milano perché avevo paura che le emozioni avrebbero potuto cambiare e non sarei più andato al Real Madrid. Ho rifiutato di firmare il contratto con il Real Madrid prima della finale contro il Bayern Monaco, però ho avuto paura di tornare a Milano per le emozioni”.
Tutti ti abbiamo visto piangere con Materazzi ma penso ce ne sia stata una simile con il Presidente… “Il suo sogno era casa sua, la coppa è stata a casa sua per qualche giorno. Io ho avuto una gioia personale tremenda di vincere un’altra Champions ma sapere che, per lui, quello era il suo sogno, il suo investimento, sia economico, sia emotivo, è stato incredibile. Non dimenticherò mai gli occhi suoi dopo la finale”.
Imprevedibilità nel calcio? “C’è sempre una grande parte di imprevedibilità nel calcio ed è anche il bello del calcio. I giocatori, però, non devono solo giocare ma anche pensare. Noi impariamo anche dai calciatori ma un allenatore deve dare loro gli strumenti per capire il gioco. A Madrid abbiamo deciso di avere monitor ovunque, sia che tu prenda un caffè, che tu stia mangiando, in palestra, ovunque. Monitor con l’analisi dell’avversario. Ho pensato di fare così e vedere se loro avrebbero guardato il monitor e, in effetti, lo facevano, lo vedevo fin dagli allenamenti. Io credo molto nell’informazione selezionata perché la concentrazione è limitata ma sono anche un difensore dei giocatori. C’è tanta analisi in questo periodo ma si tratta sempre di un gioco dei giocatori”.
Oggi questo ti può far passare per un vecchio allenatore? “Esiste un vecchio che ha preso una squadra che non ha fatto niente nell’ultima generazione e ha ottenuto due finali europee ed esiste un giovane che ha vinto due partite. Non sono un grande esempio di umiltà perché questo sono io. Non è questione di essere umile, è come sono io, dire quello che penso ed è proibito nel caso dire certe cose. Il calcio è il gioco del popolo, libertà di espressione, di pensiero, ma il calcio a determinati livelli non è libertà. Nessuno, però, mi può criticare o fermare nel dire quello che penso su me stesso”.
Esiste il mourinhismo? “Anche l’anti mourinhismo. Specialmente a Roma, ci sono entrambe le fazioni. Il mourinhismo lo conoscono le persone che sanno cosa ho fatto. L’anti mourinhismo è cavalcato da gente felice in tutto il tempo in cui la Roma non vinceva una coppa, non aveva alcun tipo di successo europeo. Si divertono in radio e va bene. L’anti mourinhismo vende, il mourinhismo è un modo di stare nella vita più che nel calco. Lo dico perché trovo gente per strada, in ogni punto del mondo, che si identifica con me e con il mio modo di stare nella vita. Per, comunque, la partita più importante è sempre la prossima. Il resto è il passato, è storia”.
La scelta di andare a Roma? Questo posto ha qualcosa di speciale? “Quando sono arrivato qui, non conoscevo la Roma. Ci ho giocato contro con l’Inter, mentre con il Porto ho giocato non contro la squadra più importante della città. Non conoscevo la Roma né come città di cuore calcistico, né la società AS Roma. Avevo allenato tre grandi squadre in Inghilterra, Manchester, Chelsea e Tottenham e volevo quindi andare fuori dall’Inghilterra. La Roma è arrivata con un discorso che mi è piaciuto, ed è stata la proprietà che mi ha fatto venire. Dopo, quando sono arrivato e ho imparato a conoscere il romanismo, ho imparato a conoscere tutti i loro dubbi, ho imparato a conoscere tutte le loro frustrazioni e ho cercato di entrarci dentro. Mi sono fatto tante domande, cui ho bisogno di rispondere con il tempo. Mi sono affezionato tanto al romanista. Mi piace il romanismo. Mi piace il romanista puro, mi piace il romanista della strada, che va la mattina a Trigoria solo per avere una foto. Mi piace la gente che segue la squadra ovunque. Quando arrivi in due finali europee e prendi la città con te, quando tu piangi di gioia con loro, tu diventi ancora più uno di loro. È ciò che sento adesso, è stato naturale. Quando sono in panchina e guardo alla destra all’Olimpico mi emoziono ancora. Quando guardo dietro di me non mi piace tanto, ma quando guardo alla mia destra mi fa venire i brividi, è gente che rimane con me, anche quando un giorno andrò via”.
Quando guardi dietro di te, intendi la tribuna? “Sì ma non solo a Roma, succede ovunque. Alcuni vanno a bere champagne, mangiare e altri invece fanno un lavoro enorme, non mangiano o mangiano male, dividono la macchina perché magari non hanno molti soldi, mentre gli altri sono i dottori del calcio. Il calcio è lo sport più popolare del mondo, si può giocare anche con una pietra per strada e sta diventando invece uno sport per l’elite, non nella pratica ma nella gente che sta dietro di te. Chi sta a destra e a sinistra (le curve, ndr) è invece veramente innamorata del calcio”.
Il murale con la vespa a Testaccio? “La vespa è lì a Trigoria, me l’ha regalata la proprietà quando sono arrivato. Quando si entra a Trigoria, purtroppo, non ci sono tante coppe e lì c’è la vespa. Ora la lascio lì, quando un giorno andrò via la porterà con me”.
Tu hai detto che rimarrai altri 6-7 mesi. Ce ne possono essere di più? “Non lo so. Prima di Budapest ho promesso ai calciatori che sarei rimasto. Dopo lo Spezia, all’Olimpico, con i gesti ho detto ai tifosi che sarei rimasto qua e adesso sono qua”.
L’allenatore è un uomo solo? “Ci sono modi diversi di analizzare la tua domanda. Quando vinci, tu hai difficoltà a camminare perché tutti stanno con te. Quando perdi, tu sei solo. Ovviamente, tu hai assistenti che stanno sempre con, c’è la famiglia, ci sono amici ma quando vinci hai difficoltà a camminare. Se perdi, sei solo. Questa la mia esperienza dopo più di 20 anni. Poi c’è l’uomo solo per scelta propria e, tante volte, io ho bisogno di rimanere da solo, di pensare da solo e qualche volta io sono con loro ma sono da solo perché sto nel mio mondo, non sento nessuno. Magari qualcuno sta anche male a stare con me in quei momenti, sono come ibernato nei miei pensieri. Per me, è un isolamento necessario”.
Il rapporto con gli arbitri è anche strategia o nasce tutto sul campo? “Strategia di cosa? Non capisco queste cose. Non c’è strategia, c’è un gruppo di gente che lavora tanto e parlo di me, del mio staff, dei giocatori, del club, del popolo e c’è la difesa del popolo. Io sono una persona che quando sente un’ingiustizia ha difficoltà a conviverci. Non mi piace l’ingiustizia, anche quella sociale, ovunque. Non c’è alcuna strategia. Nel calcio, l’unico che può sbagliare e ha un aiuto per rimediare al suo errore è l’arbitro. L’allenatore, quando sbaglia, non può fermarsi e rifare da capo. Nemmeno il calciatore può tornare indietro, se sbaglia a due metri dalla porta. L’arbitro può farlo con gli assistenti, il quarto uomo, il VAR. Gli arbitri, quindi, devono sbagliare di meno. Quando vendo ingiustizie contro il mio popolo vado in difficoltà, è il mio modo di vivere”.
Il soprannome Special One te lo sei scelto tu? “Non è vero, è come il garage di Budapest. Se uno non sa l’inglese, deve chiedere a qualcuno che lo sa. Non ho mai detto di essere The Special One, ho detto di essere “a Special One”, uno Special One, uno dei tanti. Ci sono tanti allenatori speciali. In Italia, per dire, ci sono Allegri e Ancelotti. C’è qualcuno che diceva, all’Everton, che Ancelotti era vecchio. Per alcuni, Allegri era scarso. Purtroppo per loro, Ancelotti continua a vincere e Allegri lo farà ancora sicuramente”.
Chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio… “Lo disse il mio professore. Sono arrivato all’Università. La prima classe era filosofia dell’attività corporale. Lui ha parlato per un’ora e mezza e io pensavo solo a quando sarebbe arrivato il pallone. Mi chiese quale fosse il problema e lui mi disse che, dopo qualche anno, ne avremmo riparlato. E, in effetti, ancora oggi parliamo. Mi disse: “Attento, chi sa solo di calcio non sa niente di calcio, attento”. Mi fece pensare e diventò il mio professore preferito”.
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FONTE: Sky Sport – Federico Buffa Talks
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