Resiliente. La bellezza di una parola che ha diversi significati, il primo dei quali va oltre la semantica, perché qualifica già chi la usa. È parola nobile, che al solo pensarla prevede una capacità d’introspezione che non tutti possiedono. Ma evidentemente Di Francesco sì
Ha a che fare con la capacità di adattarsi a nuova vita dopo aver subito un trauma o, più prosaicamente, con la capacità di essere presente a se stessi in ogni momento rispetto a quello che si sta facendo. Non è una parola comune, anche se nel gergo degli allenatori è piuttosto conosciuta, ma resta difficile pensare che Di Francesco possa averla usata d’istinto. Ci deve aver pensato in questi giorni a leggere certe prose immaginifiche epperò così ineleganti, anzi volgari, persino basse, anzi misere. Di chi non si accontenta di abbattere il suo bersaglio, ma ne pretende l’umiliazione. Non basta dirgli che non ha carisma,ma che è ridicolo se si atteggia a carismatico. Non basta dirgli che la squadra gioca male, ma che i giocatori l’hanno anche già rigettato, scartato, dimenticato.
Poi però arriva Eusebio da Sambuceto, paesotto di neanche 10000 abitanti che deve il suo nome alla proliferazione nel suo territorio delle piante del sambuco, quelle che sui terreni incolti o lungo le strade delle periferie delle grandi città crescono spontanee, perché hanno un innato spirito di adattamento. Resistono dove chiunque altro si arrende. Sono piante, per l’appunto, resilienti. Eusebio nostro arriva da quelle parti e figurati se si può curare di certe bassezze. Lui resiste. Ha cominciato da piccolo, a correr dietro in bicicletta al fratello più grande che si chiamava Fausto in onore di Fausto Coppi, ma lui voleva superarlo sul suo campo, lui che si chiamava Eusebio perché il papà adorava La Perla Nera del Mozambico, il portoghese del Benfica che ammaliò il mondo per la sua classe infinita.
E infatti il piccolo Di Francesco a calcio non aveva rivali e l’Empoli se lo portò via che era ancora un ragazzino. È una vita che cerca avversari più alti, più forti, più belli e più carismatici di lui e li affronta, li supera, li batte. Non ha paura di niente e di nessuno. Come il suo calcio: dev’essere propositivo, innovativo, offensivo, resiliente. Tra fuoco amico e fuoco nemico non fa quasi differenza. A Dzeko non le manda a dire: parla di meno e gioca di più. A Pallotta non risponde niente perché dal presidente erano arrivati solo complimenti. Ma se lo stimolano su D’Alema tira una stoccata che neanche Grillo avrebbe azzardato: «E vorrà dire che se avrò bisogno di un consiglio per vincere qualcosa chiederò a lui che è un grande esperto di vittorie».
Conosce Roma ma un po’ è stupito dall’isteria di certi giudizi: «Abbiamo giocato 270 minuti di campionato, già alziamo questi polveroni insensati?». Sgrana gli occhi che dietro le lenti spesse sembrano enormi. Si aspettava un po’ di scetticismo,ma non che le avanguardie del caos volessero portarsi tanto avanti da richiederne la testa quando non si è ancora cominciato. E per una questione di look, poi. Si guarda intorno stupito. Quanto sarà bello vincere qui?