Nessuno sa che cosa passi davvero, in questi giorni, per la testa e per il cuore di Francesco Totti. Ma che cosa stia passando per la testa e per il cuore nostri, di chi Francesco lo ha seguito ed amato da quando era il cucciolo di razza allevato prima da Carletto Mazzone, poi da Zdenek Zeman, questo sì, lo sappiamo. E si tratta di qualcosa che va assai oltre il gioco del pallone, e la stessa storia di uno dei migliori, forse il migliore, di quelli che un tempo, quando il calcio non era ancora uno spezzatino televisivo, si chiamavano gli eroi della domenica. Raccontarlo senza cedere alla retorica delle cerimonie degli addii, parlando di sentimenti senza farsi trascinare dal sentimentalismo, non è facile. Proviamoci, chiedendo perdono in anticipo – prima di tutti a lui – se non riusciremo ad essere fedeli alle premesse.
Partiamo da un assunto. Francesco Totti è Roma. Non solo qui, ma in Italia e nel mondo. A lungo, per lui, questa verità evidente sin dai suoi primi passi in serie A è parsa agli stolti la prova provata di un limite invalicabile. Bravo, forse anche bravissimo, ci mancherebbe, ma irrimediabilmente Pupone. Coccolato oltre ogni limite dai suoi cari e dalla sua gente, primo tra tutti il presidente Franco Sensi, per il quale era il figlio maschio che non aveva e avrebbe voluto. Strafottente come un tifoso di una curva che per decenni ha commentato le più dolorose sconfitte intonando Que sera, sera. Cascatore professionale. Predisposto al fallo di reazione. Incline alla protesta sguaiata o peggio (lo sputo a Poulsen, il calcio nel sedere a Balotelli, che gli provocò persino un’ improbabile pubblica reprimenda, diffusa dal Quirinale, da parte di Giorgio Napolitano, probabilmente malconsigliato dal lazialissimo figlio Giulio) contro gli avversari e gli arbitri. Politicamente scorretto. Leader naturale di una squadra (di una città?) in eterna decadenza, che vince poco o nulla, e tuttavia ama, odia, si esalta e si deprime molto più di chi vince sempre, o quasi. E quindi giudicato quanto meno con sufficienza dai (cosiddetti) critici, e accolto da fischi e ululati in tutti gli stadi.
Confessiamolo. A noi, che, per dire, abbiamo anche acquistato e talvolta indossato sciarpe giallorosse con su scritto «Che Dio ve furmini», e intonato il coro «Un capitano, c’è solo un capitano», tutto questo non spiaceva affatto. Anzi, ci faceva identificare sempre più con lui, Checco nostro. «Anch’io sono Francesco», recita un poemetto, diciamo così, di cui si trova ancora traccia su certe vecchie magliette. «No Totti no party», si legge su uno striscione ormai classico, tuttora regolarmente esibito in casa e in trasferta. Il fatto è, però, che mentre noi ci crogiolavamo nella nostra diversità, Roma certo non cambiava, anzi, continuava a declinare oltre le soglie dell’immaginabile. Invece Totti, o almeno l’immagine di Totti, sì. Eccome. Senza perdere i suoi tratti distintivi (come si dice con parola un po’ equivoca, la sua romanità, e insomma la sua identificazione pressoché totale con la squadra e la città, le sue radici popolari), ma sprovincializzandoli, fino a renderli, grazie anche a un’autoironia lieve ma costante, in qualche modo universali. E a diventare il più incredibile, rispettatissimo testimonial della Roma, nonostante con la Roma abbia vinto solo uno scudetto, e di Roma, nonostante la città versi nello stato in cui versa.
Come può capitare soltanto a un campione enorme, ma soprattutto a un uomo intelligente che ha dato il meglio di sé in un tempo in cui il calcio è diventato un fenomeno mondiale, e si gioca nelle ore più impensate per garantire che la partita nelle plaghe più impensate sia vista da centinaia di milioni di persone, senza mai dimenticare (parola del grandissimo capitano del Liverpool Steven Gerrard) che «la sua felicità deriva dall’aver fatto felice la gente di Roma». Come può capitare a un campione enorme, ma soprattutto a uno stagionato ragazzo di Porta Metronia, che, quando gli chiedono cosa farà da oggi in poi, risponde leggiadro: «Andrò a pesca», e a chi gli ricorda le parole di Maradona («Totti è il migliore che abbia visto in vita mia»), replica sornione: «Ora posso anche smettere». Chissà cosa farai da grande, Francesco. Per intanto, meriteresti un buon contratto per insegnare all’università scienze della comunicazione.
È una storia lunga, questa della (apparente) transustanziazione di Totti, che ha un passaggio chiave, il rifiuto di lasciare la Roma per vestire la maglia del Real Madrid, e un suggello esemplare, l’ovazione con cui il Santiago Bernabeu, tutti in piedi, accolse lo scorso anno il suo ingresso in campo per l’ultima, inutile mezz’ora della partita di Champions League tra le due squadre. Ma di cose da ricordare ce ne sarebbero tante. Per esempio quella narrata sul Manifesto da Giuliana Sgrena, finalmente rientrata a Roma dopo il lungo sequestro di cui era stata vittima in Iraq. Un giorno, scrisse, i suoi carcerieri, che ormai aveva imparato a conoscere, tardarono inspiegabilmente a darsi il cambio, finché, all’imbrunire, quello che era di turno finalmente arrivò, trafelato ma in tutta evidenza felice: aveva fatto tardi per guardare in tv una partita vittoriosa della Roma, indossava una delle infinite magliette di Totti di cui è inondato il mondo. E a chi scrive torna alla mente anche il siparietto che, una dozzina di anni fa, gli regalò Silvio Berlusconi, alla fine di un’intervista. Ero già sulla porta, quando mi raggiunse: «So che lei è romanista, voglio farle un piccolo regalo. Non è vero quello che scrivono, non cercherò di portare Totti al Milan. Lo vorrei moltissimo, si capisce, ma le bandiere non si comprano e non si vendono».
Non si comprano, non si vendono e, se è per questo, non si mettono nemmeno in naftalina. Non sono (non dovrebbero essere) un problema, sono (dovrebbero essere) una ricchezza, nel caso di Totti inaudita. Sarebbe stato bello che tutti se ne fossero ricordati, se ne ricordassero, cercassero di essere all’altezza. Non è andata così, e questo colora ancor più di amarezza un momento già tanto amaro. Ma una storia come quella che abbiamo avuto e abbiamo con Francesco, «uno di noi», merita che di tutto questo, almeno qui, non si parli. Bandiera vecchia, onor di capitano.