“Per la Roma ho giocato con una leggera zoppia dopo un’operazione, a volte scendevo in
campo con un ginocchio che spesso subiva infiltrazioni per sopperire a un problema di
cartilagine. Per questa maglia ho dato tutto, anche più di quello che dovevo dare. E sa perché?
Perché noi eravamo romanisti dai capelli alla punta dei piedi”.
Franco Peccenini – anno 1953, 180 presenze tra campionato e coppe – era il “gemello” di Francesco Rocca. Peccenini terzino destro, Rocca terzino sinistro. Andavano su e giù per la fascia con qualità e quantità. Spesso venivano accomunati e citati in coppia. “All’epoca – primi Anni 70 – eravamo una forza della natura. I migliori esterni bassi del campionato italiano. Liedholm ci considerava due pupilli”.
Lei e Rocca i pupilli di Liedholm? “Sì, Nils fu una figura speciale per noi due. Era un maestro di vita e un insegnante di calcio. Siamo diventati calciatori veri grazie a lui. Pensi che un’ora prima dell’allenamento ci dedicava un addestramento speciale sulla tecnica. Lanci lunghi, passaggi corti, tutti quei fondamentali che poi ci sono tornati utili nel corso della carriera”.
Ecco, poi cosa accadde nel corso della sua di carriera? “Pagai un problema di cartilagine al ginocchio. Per giocare facevo infiltrazioni di cortisone, ma servivano soltanto per non farmi sentire dolore e per togliere il gonfiore. Sappiamo che la cartilagine non ricresce, quindi il problema persisteva. Con questo si è aggiunta una progressiva artrosi, che mi ha ridotto la flessibilità dell’articolazione”.
Quando sostenne la prima operazione? “Nel 1975, al ginocchio destro. Ero quasi all’apice del mio percorso calcistico. Fui costretto a fermarmi e ad andare sotto i ferri. Lì si rallentò tutto, tenni il gesso per 40 giorni. Il ginocchio ci mise tanto per tornare a una condizione normale. Aveva tante aderenze, a malapena riuscivo a piegarlo. Successivamente, fui costretto a fare un altro intervento – di nuovo sotto anestesia – per sbloccarlo. Fu quasi più doloroso questo che il precedente. Ripresi l’attività sportiva, ma da quel momento non ero più il giocatore che tutti pensavano potessi diventare”.
Rimpianti? “Zero. Ho sempre dato oltre il mio massimo per questa maglia. Non mi posso rimproverare nulla. Talvolta oggi mi arrabbio quando vedo calciatori di tante squadre non impegnarsi al massimo per la società che li paga, ma mi rendo conto che noi facevamo parte di un’altra epoca e avevamo la Roma nel sangue”.
Ha avuto particolari conseguenze fisiche dopo aver smesso con il calcio? “Qualche anno fa ho dovuto impiantare due protesi alle ginocchia, d’altronde la situazione dell’articolazione era compromessa”.
Cosa ha pensato quando ha saputo dell’infortunio a Karsdorp, costretto a fermarsi dopo la prima partita ufficiale con la Roma? “Mi è dispiaciuto molto. Ora gli servirà tempo per tornare il calciatore di prima, ci riuscirà senza ombra di dubbio. Qualcuno potrebbe paragonare la mia vicenda con la sua, dato che ricopre pure lo stesso ruolo che facevo io, ma le storie sono diverse. Non tanto perché si tratta di due problematiche diversi, ma più che altro perché oggi le terapie per far recuperare i calciatori sono sensibilmente più evolute e efficaci di quelle del passato. Oggi non ingessano più, muovi il ginocchio quasi subito. Karsdorp tornerà più forte di prima”.
Ai suoi tempi, invece, com’era? “Era molto più complicato riprendersi un infortunio. Le dico che il professor Perugia, quando vide il mio ginocchio, si stupì per quanto cortisone era stato infiltrato. Era una conseguenza delle punture che facevo per giocare”.
Che rapporto aveva con Gaetano Anzalone? Il presidente del suo momento d’oro in giallorosso. “Molto buono, lo conoscevo da ragazzino. Arrivai alla Roma nel settore giovanile sotto la presidenza di Marchini e Anzalone era proprio il presidente del vivaio. Quando venni
promosso in prima squadra, dopo tutta la trafila nelle giovanili, lui era diventato presidente
della società. È stato un percorso che abbiamo fatto di pari passo. Raramente ho conosciuto un
romanista come lui. Amava i colori giallorossi più della famiglia. E poi, ebbe il merito di
valorizzare tanti giovani sotto la sua gestione. Non a caso la squadra che vinse lo scudetto nel
1983 aveva giocatori che venivano dalle giovanili e altri che prese lui in tempi non sospetti”.
La Roma di oggi? “È una società strutturata, che punta a ottenere risultati importanti. Le basi per fare sempre meglio ci sono, certo qualche titolo vinto in più avrebbe aiutato. Speriamo arrivi una vittoria, prima o poi. Con maggiore coinvolgimento e più fortuna ci si potrà riuscire”.
Spesso la vediamo all’Olimpico nella parte di Tribuna Autorità “Hall of fame” dedicata agli ex giocatori. Che effetto le fa la domenica condividere la partita con altri grandi che hanno fatto la storia del club? “Questa iniziativa della società è bellissima. Ci ritroviamo spesso lì tutti insieme ed è sempre una bella emozione. Ci volevano gli americani arrivati nel 2011 per ricostruire un legame con il passato. Prima non ci aveva pensato nessuno e non capisco il perché. È un riconoscimento che tutte i club dovrebbero dare a chi ha contribuito sul campo. La Roma lo fa. Ed è giusto così”.