Non credeteci. Tutta questa gente commossa che non vuole lasciare gli spalti dell’Olimpico come se temesse così di materializzare una sciagura, non versa lacrime per Francesco Totti che se ne va. Ognuno di loro piange per la propria vita, per i fantasmi che li abitano e che ne approfittano ora per volteggiare sulle loro spalle e ricordare a tutti che c’è un tempo che non ritorna. La certezza resta appiccicata alla pelle: con l’addio di Totti tramontano i sogni di una generazione e anche una certa estetica del calcio, che prevede muscoli e corsa al servizio della palla e non viceversa, ma il futuro ringhia nuovi comandamenti che adesso, all’improvviso, non sembrano poi così belli.
FISCHI AL VERTICE – Certo, il campione si è convinto, farà il dirigente con un’etichetta da stabilire (direttore tecnico, vice presidente), ma adesso poco importa. I fischi feroci che ricoprono Spalletti e il presidente Pallotta quando si avvicina al capitano (gelido con entrambi) emettono la sentenza: sono loro che hanno creato questa festa dolorosa, che comincia prima della partita con i messaggi dei grandi campioni. Applausi per Maldini, Cassano, Del Piero, Gerrard, Sergio Ramos: fischi per Buffon. All’ingresso delle squadre in campo la Sud si ricopre di giallorosso e si crea una scritta: «Totti è la Roma». Poi la partita, emozionante come un thriller, ma che sembra solo l’anticipo di ciò che tutti aspettano. Francesco esce dal campo, la squadra e lo staff tecnico si schierano aspettando il capitano, che risbuca dal tunnel accanto alla Sud. Le musiche modulano le emozioni, che diventano solo lacrime quando il pentagramma di Ennio Morricone accorda il cuore dello stadio. Tutti cercano l’abbraccio di Francesco, lui lo regala a tutti, ma quello vero è per Ilary, Cristian, Chanel e Isabel. Lungo, struggente, pieno di lacrime. Fa due volte il giro del campo inchinandosi più volte, finché ad un certo punto, senza riuscire a parlare, si siede su un tabellone sotto la Tevere, come se non volesse più andare via.
«MI MANCHERAI» – Giunto sotto la Sud appare un pallone e Francesco sopra vi scrive: «Mi mancherai», prima di calciarlo in curva. Poi si riavvicina a quelli che lo aspettano a centrocampo. I compagni hanno tutti addosso la maglia numero 10, gli amici una t-shirt bianca con la scritta «6 unico», che riecheggia quella che fu il primo dono mediatico per la fidanzata Ilary. Il capitano tocca mani sudate dall’emozione, finché alla fine della fila non trova l’abbraccio di De Rossi, che ha gli occhi lucidi come lui. Il nuovo capitano gli porge un vassoio d’argento su cui è scritto: «Grazie Francesco, il tuo esempio è il nostro futuro». Poi arriva un microfono e Totti comincia a parlare. «Purtroppo è arrivato questo momento che speravo non arrivasse mai. Questi giorni sono state scritte tante cose su di me, belle e tristi. Ho pianto sempre da solo a casa come un matto: 25 anni non si dimenticano, mi siete stati vicini nel bene e nel male. Voglio ringraziarvi tutti quanti anche se non è facile. A mia moglie ho raccontato un po’ di cose di questi anni e ho scritto una lettera per voi, ma non so se riuscirò a leggerla». E inizia a leggere, camminando in tondo sotto lo sguardo dei figli, mentre sgrana un rosario di emozioni fra cui spicca: «È impossibile raccontare tanti anni in poche frasi, mi piacerebbe farlo con una canzone o una poesia, ma non sono capace di scriverle, per questo ho provato a esprimermi attraverso i piedi con cui mi viene tutto più semplice. Mi sono chiesto in questi mesi perché mi stiano svegliando da questo sogno. Vorrei che la mia carriera diventasse una favola da raccontare. Ora è finita veramente, spegnere la luce non è facile. Ad un certo punto si diventa grandi. Maledetto tempo. Mi levo la maglia per l’ultima volta, anche se non sono pronto a dire basta e forse non lo sarò mai. Scusatemi se in questo periodo non ho chiarito i miei pensieri. Adesso ho paura. E non è la stessa che si prova di fronte alla porta quando devi segnare un rigore. Questa volta non posso vedere attraverso i buchi della rete cosa ci sarà “dopo”. Questa volta sono io he ho bisogno di voi, del vostro calore». E lo stadio canta: «Noi non ti lasceremo mai». Poi Totti conclude: «Il mio cuore è con voi, sono orgoglioso e felice di avere dato la mia vita alla Roma. Vi amo». L’Olimpico ribolle, ma il più emozionato di tutti è un bambino, Mattia Almaviva, a cui Francesco si avvicina per agganciargli al braccio la fascia di capitano. Mattia è il più giovane capitano del settore giovanile della Roma e, fermo al centro della enorme maglia che campeggia sul centro del campo, trema di felicità. Stavolta è davvero finita. Gli altoparlanti lanciano «You are simply the best» e «La vita è bella». Proprio vero? Stavolta non lo giurerebbe nessuno, perché comincia il momento dei ricordi. Anche per Francesco, che sussurra: «Io starei qui per altri 25 anni». Troppo tardi capitano, è ora di andare. Francesco esce toccando l’erba e baciandosi la mano, mentre la famiglia e gli amici lo aspettano per la cena in un ristorante sull’Aventino. Di tutti gli striscioni (bellissimi) che vengono riarrotolati, uno sintetizza bene il pensiero di chi c’era: «Si dica che ho vissuto al tempo Totti». Per questo pure noi, vergognandoci un po’, ci asciughiamo gli occhi e pensiamo che ci piacerebbe davvero che avesse ragione Hugo Pratt quando, in «Corto Maltese», raccontava come a Venezia esista una porta che conduca in un’altra storia da vivere. Non pretenderemmo tanto. Ci basterebbe tornare indietro di 25 anni.