Siamo tutti figli di Abraham. È il centravanti moderno che la Roma insegue da anni. Prima Dzeko, poi l’inglese. Nessuno dei due eccelle di testa sotto porta, pur essendo entrambi due giganti affusolati. Ma a metà campo, da ultimo uomo lasciato lì per allungare la squadra, allora sì che Abraham di testa ci sa fare: la prende quasi sempre lui, se gli arriva alta, la smista sempre bene, se gli arriva bassa. Un uomo squadra che ha imparato presto la lezione e ancor più aveva capito che di gente come lui, nel gruppo, non c’era nessuno, anzi era già tanto che ce ne fosse uno.
Abraham è quattro soluzioni in una: è un trascinatore, è un risolutore, mestiere quest’ultimo che svolge con varie tecniche, è uno che fa salire la squadra, è un uomo a tutto campo perché può anche abbassarsi a recuperare palloni sulle fasce, oppure a raddoppiare (è stato visto) su una palla persa sulla propria trequarti. Scontato che spazzi in area sui corner avversari. Meno scontato che a fine partita, a torso nudo, fradicio di sudore e di pioggia, sia quello che più si intrattiene sotto la curva, forse per capire meglio cosa voglia dire vincere un derby: che la vera vittoria, quella emotiva, non finisce col fischio finale: ma comincia
Ieri la doppietta di Abraham ci racconta del suo puro istinto di attaccante. Prima colpisce di coscia la palla pazza del corner di Pellegrini finito sulla traversa, poi sa prima di Karsdorp dove Karsdorp indirizzerà fortissimo il cross del 2-0: e lì si concede un’acrobazia a porta vuota. Noi, figli di Abraham, faremmo bene a riflettere sul fatto che in tutte le partite in cui la Roma stenta, e non sono poche (ma non è stato il caso di questo derby) la squadra non riesce a rifornire Abraham.
FONTE: La Repubblica – E. Sisti