Quarantacinque estati fa un altro romanista diventò laziale e fu un trasferimento che fece epoca, di sicuro più rumore di adesso. “Perché il mio passaggio alla Lazio è stato diverso dagli altri, io ero un simbolo della Roma. Non certo uno come Pedro. Rimasi alla Lazio tre anni e mi trovai a meraviglia. Però il cuore è rimasto sempre dall’altra parte, e ancora sta lì”.
Del resto tutto cambia, caro Ciccio Cordova. In cosa fu diverso il suo caso da quello di Pedro? “Lui è spagnolo, giocare nella Roma o nella Lazio è la stessa cosa, è un professionista, va dove pensa che gli diano più spazio, per lui è un problema relativo. Supererà ogni difficoltà, ammesso che ne avrà. Poi è stato solo un anno alla Roma, che vuoi che sia”.
Lei invece nel 1976 era Ciccio Cordova, ovvero? “Centrocampista della Roma da dieci anni, capitano, tifoso. Ma fui costretto ad andare alla Lazio, sennò avrei dovuto smettere col calcio a 32 anni”.
Per i più giovani, e per chi ha voglia di ricordare i bei tempi andati: cosa accadde? “Che stavo sulle scatole al presidente, Gaetano Anzalone. Dal primo giorno. Perché ero il genero del suo predecessore, Alvaro Marchini: avevo sposato la figlia Simona, con tutti problemi che la cosa rappresentava ai tempi. Fu un rapporto impossibile fin dall’inizio. Ma io non ero uno qualsiasi, ero il capitano e leader della squadra, e fu una guerra. Addirittura all’inizio della stagione 1974-1975 rimasi fuori nelle prime sette partite, la Roma fece 4 punti, era quasi ultima. Mi fecero rientrare a viva forza per il derby, mi convinsi a giocare… Vincemmo il derby contro la Lazio campione d’Italia 1-0, gol di De Sisti. A fine anno arrivammo terzi”.
Lei era un grande centrocampista, Ciccio. “Non so se sono stato un grande. Però ero bravino, dai”.
Ma l’anno dopo ci fu il divorzio… “Anzalone mi voleva vendere a tutti i costi per vari motivi, io non volevo muovermi da Roma per vari motivi, poi non potevo certo dargliela vinta. Mi vendette al Verona. Rifiutai. Così per pura ripicca sono andato alla Lazio. All’epoca i giocatori non erano liberi di muoversi: non ci fosse stata la Lazio, avrei rischiato di smettere. La Lazio mi volle, e la Roma fu ben felice di cedermi. Per me fu dolorosissimo, ce l’ho ancora addosso quel dolore. Da romanista e capitano della Roma, a laziale: non fu facile”.
Gli inizi, immaginiamo, furono complicati… “Le racconto una cosa inedita. Prima amichevole all’Olimpico con la Lazio, in notturna. Sono l’ultimo a entrare in campo e per un motivo: stavo lì nel sottopassaggio, a torso nudo e con la maglietta in mano. Qualcosa mi impediva di indossarla, non riuscivo, anzi non ne avevo alcuna intenzione. Un rifiuto. Un dirigente lì vicino mi implorò, poi sempre più spazientito disse: “Ma te la voi mette ‘sta maglietta, che dovemo giocà?”. Alla fine è andata, le cose hanno preso il loro verso. Alla Lazio ho passato tre anni eccellenti, mi hanno trattato benissimo, ho fatto praticamente tutte e 90 le partite di quei tre campionati. Però al cuore non si comanda: lui, era rimasto dall’altra parte”.
Eravate meno liberi di adesso, voi giocatori, e i guadagni poi erano un’altra cosa… “Ma anche allora c’erano tanti soldi eh? Rapportati a quelli di adesso magari no, ma gli ingaggi erano alti, alcuni altissimi. Quanto guadagnavo io? Glielo direi volentieri, ma non mi va… La vera differenza è che adesso ti fanno contratti di tre anni, invece allora era solo uno. E ti dovevi guadagnare il rinnovo a ogni stagione. I giocatori normali, intendo. Io no, non avevo di questi problemi”.
Che Roma si aspetta quest’anno? “Mi dispiace che sia andato via Dzeko, per me è un fuoriclasse. Ma speriamo che il progetto dei giovani funzioni. E che Mourinho ci metta del suo. Ha una squadra molto buona, lavorandoci bene arriverà tra le prime”.
FONTE: Il Messaggero – A. Sorrientino