Per lui il Mondiale è stato una specie di vacanza. Di quelle che passi alla finestra a roderti il fegato perché per qualche motivo non puoi uscire. Poi arriva il minuto in cui serve l’eroe dell’azione finale, l’uomo dell’ultima speranza più una, e sei tu.
Paulo Dybala, dopo una brevissima apparizione in semifinale, viene fatto entrare apposta per tirare un rigore della sequenza decisiva, per di più il quarto, quello che per le statistiche è la cima del diavolo, e per di più il secondo dell’Argentina dopo quello di Messi. E lo segna. Perché Paulo è così, un ghiacciolo che penzola dal cornicione finché non ti cade in testa.
A differenza di Lautaro e Di Maria, Dybala non ha conosciuto particolari pause di riflessione nel suo rapporto con la Roma. Dybala si conosce e conosce la propria indispensabilità. Riteneva di essere necessario alla Juventus, quindi si ritiene altrettanto necessario alla Roma. E lo dimostra.
Contro il Salisburgo su un pianeta normale non avrebbe giocato. Ha voluto in prima persona sforzarsi oltre i limiti del rischio, perché non poteva lasciare sola la squadra in un momento simile. Un po’ come dire che il cavaliere solitario ha catturato il mucchio selvaggio circondandolo.
La metamorfosi che coglie la Roma quando Dybala è in campo impressiona: cresce la qualità, ovviamente, e cambia pure l’atteggiamento dei compagni. Passa qualsiasi scoramento, improvvisamente è come se tutto diventasse possibile. Non c’è vera Roma senza Dybala, e questo è un limite della squadra.
FONTE: Il Corriere dello Sport – M. Evangelisti