Le più gettonate, mentre arrivo, sono “verticale” e “pressione” (“Mi piace perché sta squadra gioca sempre la palla in verticale”; “una pressione così appena perdi palla non l’ho mai vista”). Qualcuno azzarda anche un “uno contro uno” (“Difendiamo sempre uno contro uno; prima non era così”). Ma “verticale” e “pressione” vincono a mani bassi. La sensazione è che vi sia una sottile paura, al termine di questa partita che ancora deve iniziare, di ritrovarsi soddisfatti per il gioco e per il risultato e di correre il rischio, a quel punto, di riaprire il cassetto dei sogni (“Se vinciamo oggi … vabbè, nun me fa dì gnente…”). Il mood, difatti, è contrastante. Da un lato, siamo ancora, tutti, nel ruolo dei tifosi delusi ed arrabbiati, che stanno lì a contestare ed a guardare una stagione che dovrebbe sfilare via senza una gioia (“Io ancora non mi capacito”).
Dall’altro, quanto visto contro l’Udinese, valutato il possibile valore della nostra rosa, colpiti positivamente da uno Juric tutto campo e lavoro, considerata la circostanza che siamo ancora a settembre e che ancora tutto sia possibile, la voglia di riaccorparci e riniziare, con entusiasmo ed uniti, il cammino bruscamente interrotto in quella spietata semifinale tedesca, c’è tutta (“Guarda che il lavoro di Juric già si vede, ed è un gran lavoro”). E questo crea un sottaciuto senso di colpa, soprattutto nei confronti di DDR, quasi che, a riprendere a vincere, fossimo colpevoli di tradimento nei confronti di Daniele nostro.
E la dimostrazione plastica di questa sensazione dicotomica la viviamo al sedicesimo del primo tempo, nel momento in cui la Sud si sveglia dal suo silenzio e Lina, quei giorni in cui ci siamo sentiti orfani, Romelu che se ne va senza che noi ci si azzardi a dire una sola parola, coscienti dell’impossibilità che possa restare, sembrano finalmente alle spalle. E quando, poi, dopo un inizio sottotono, improvvisamente il gioco diventa “verticale” e, quando perdiamo palla, andiamo subito a riprendercela, nella loro metà campo, applicando una “pressione” costante, spesso “uno contro uno”, lì, in quel preciso momento, il cassetto dei sogni inizia veramente a riaprirsi (“Mai vista una Roma così”).
E quando, poi, a valle di un’azione in cui tutti fanno la cosa giusta – Dybala inventa; Konè dimostra uno strapotere fisico; Baldanzi prende quella palla e, come un folletto, la fa arrivare dall’altra parte del campo; Angelino, ringraziato Baldanzi, fa un cross perfettamente calibrato; il Pichichi la impatta di testa, dopo un perfetto smarcamento, facendo sembrare facile un gesto difficile – passiamo in vantaggio, quel cassetto si spalanca del tutto (“Sembra il Brasile contro ‘na Primavera …”). Ed è allora che iniziano ad alzarsi le prime voci, primo in tono sommesso, poi sempre più deciso, che ti dicono che era proprio di uno come Juric che avessimo bisogno (“Quanto ce capisce!”), che questo è il gioco adatto a questa rosa (“Così devono giocare”), che il Pichichi non sarà ancora Lukaku ma ne riparliamo a maggio (“Fortissimo: vedrai quanti ne farà da qui a fine stagione”).
E che non si arrivi all’intervallo con due gol di vantaggio ci appare più come una dimenticanza, a cui poter porre rimedio nel secondo tempo, che come un segnale di pericolo. Ed a quel punto, quanto accaduto nemmeno dieci giorni fa inizia a sembrarci passato remoto quando si riparte, difatti, Soulè, mangiandosi un gol che sembrava fatto, ci illude che di Dybala si possa fare ogni tanto anche a meno (“Lo segna tra poco, nessun problema”), evidentemente facendoci dimenticare, per un attimo, di cosa fosse stato capace Dybala nel primo tempo. Ma passano pochi minuti e sembra che quello che avrebbe dovuto essere passato remoto sia, invece, un passato più che prossimo, addirittura un passato a cui dare un nome ed un cognome: Genoa – Roma.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCARE QUI
FONTE: Il Romanista – F. Vecchio