«Io non ho capito». Questa la frase che mi arriva dal seggiolino al mio fianco. Tenetela a mente perché la leggerete, nel prosieguo, più volte. In questo caso, la mancata comprensione è del perché si sia arrivati a questo punto. Al punto, cioè, di giocarsi una partita che, addirittura a dicembre, potrebbe farci sprofondare nel pantano («Se perdi oggi, la situazione si fa drammatica»). Non trovi uno che, come le altre volte, parli di schemi, braccetti, quinti, Pelle sì Pelle no. Non ce n’è uno. Le sole parole che senti sono di preoccupazione e di necessità. Di preoccupazione, perché il rischio è forte («Il Parma gioca bene, noi no»); di necessità, perché non c’è alternativa («Anche un pareggio scatenerebbe il panico, perché poi hai tre partite difficili, due in trasferta e in casa il Derby»). È ovvio, quindi, che il piacere di sedersi in Tevere, quello che ci aveva trasferito Mou, quello che avevamo con DDR, sia venuto meno.
Adesso tutto è diventato esigenza. Ed è un’esigenza che ci siamo creati da soli. Perché, dopo poche battute, è l’altro seggiolino che confessa di non avere capito «non del perché siamo arrivati a questo punto, che è colpa della Società, ma perché nessuno sia stato capace di fermare questa discesa. I giocatori forti ce l’avevamo e ce l’abbiamo». Ma non finisce qui. Vista la formazione, sorprende la semplicità del tutto. Il centravanti fa il centravanti, il centrale fa il centrale e così via. Ed allora quell’«io non ho capito» diventa, subito dopo, il non avere capito il perché non sia stato fatto banalmente prima. Perché, cioè, abbiamo lasciato per mesi Hummels e Paredes a tribolare in panchina («Io non ho capito perché non se ne siano accorti prima.
Forse si allenavano in smart working, sennò non se spiega»). Ma iniziamo. Ed iniziamo che sembriamo quella partita del 2001: noi fortissimi, loro in nostra balia («Speriamo noi siano solo i primi minuti e che poi crolliamo»). Ma non crolliamo. Giochiamo che è una meraviglia. Stiamo sempre nella loro metà campo. Diamo sempre la sensazione di poter segnare («Mi sembra la Roma dell’86»). Segniamo. Risegniamo. Attacchiamo. Quando si affacciano dalle nostre parti, Svilar sembra, per chi ha memoria, Albertosi di Mexico ’70. Non ti capaciti. Sarà che, nel dubbio se pranzare a mezzogiorno o alle tre, non abbiamo ancora mangiato. E questo, forse, ci rende meno lucidi. Ma non abbiamo capito come sia possibile («Spiegame la differenza tra Como ed oggi»). E non basta ricordare come a Como non ci fossero Hummels e Paredes. Non basta.
Arriviamo all’intervallo che non si capisce se sia più giusto essere contenti o arrabbiati («Abbiamo passato ‘na settimana impossibile senza motivo, perché quando vogliono giocà, giocano»). Perché la Roma che vedi non può essere quella che deve sperare che arranchino Lecce, Venezia e Cagliari. No, non può essere questa. La Roma che vedi è una squadra che dovrebbe rincorrere l’Atalanta e l’Inter. Ed allora qualcuno parla di «quadratura del cerchio», di «squadra finalmente definita», di «titolari e riserve». Ma stiamo sempre lì. I punti, bene che vada, saranno diciannove e poi, a seguire, avrai tre partite che potresti ritrovarti a venti. Ma c’è ancora tutto il secondo tempo, e solo se si ripensa come sia stato quello di Como ci si aspetta di tutto («Io questi discorsi sulla Roma che è tornata ad essere la Roma li farei alla fine, quando ce ne andremo a trovà un ristorante aperto. Adesso, no»).
Poi arriva Dybala che segna, lascia i rigori, mette il Pichichi dentro la porta («E stiamo ancora qui a discutere che a gennaio dovrebbe andare via!?»). Poi arriva Paredes che chiede e Dybala che lascia fare («I giocatori forti sono forti e si capiscono tra loro. Li devi fare giocare sempre»). Poi vedi Svilar che para come se stessimo sull’uno a zero per noi all’ultimo minuto («Speriamo che si sbrighino a rinnovargli il contratto»). Poi vedi Ranieri che non cambia nessuno («Avrà voluto lanciare un messaggio alla squadra; quale, però, non saprei»). Poi vedi che l’arbitro non dà nemmeno un minuto di recupero, perché sul cinque a zero, con quel freddo, non è proprio il caso. Ed allora in Tevere si palesano più dubbi che certezze.
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FONTE: Il Romanista – F. Vecchio