In Italia si legge poco. Nemmeno le regole del calcio. Presunzione, leggerezza, entrambe indecorose. Oppure un minestrone delle due eccelse virtù. Ma alla fine cambia poco, perché il fondo è già stato toccato.
Questa recita accade sulla panchina di una squadra di serie A, di un club che ha una sua storia e, si spera, una dignità da difendere, accade presso una società quotata in borsa, che paga fior di stipendi e punta a traguardi importanti.
Sui campetti di Prima o Seconda Categioria, il dirigente accompagnatore che si macchia di una simile svista, di solito viene spedito a casa. Perché esiste una dignità di Prima e Seconda Categoria che è grande e che va difesa al pari dei valori praticati (e pretesi) nelle alte sfere del pallone. Ma la Roma è diversa. Alla Roma c’è chi pensa che fare sei cambi (possibili in certi casi in Champions) non sia un errore, come se fosse normale non conoscere le regole del gioco.
Il record è difficile da battere. Per ben due volte, nel solo girone di andata, la Roma, che ignora sdegnosamente le regole del gioco, è stata colta impreparata nei fondamentali: prima con l’aver fatto giocare Diawara a Verona senza prima averlo incluso nella lista dei 25 di inizio stagione, poi con questo cabaret voltaire della follia, in cui un intero staff tecnico sbugiarda Pellegrini dicendo che «si può fare», come Gene Wilder alla prospettiva di creare un mostro proseguendo gli esperimenti del nonno Frankenstein!
A tanta incuria, sciatteria, confusione, dovrebbe seguire una decisione, o più d’una. «Non credevo fosse un problema», ha detto Fonseca, dimostrando che esistono almeno due modi diversi di essere nel pallone. Ma veramente? E adesso diteci: come continuare a fidarsi di queste persone?
FONTE: La Repubblica – E. Sisti