Le realtà parallele di cui si scriveva un paio di giorni fa, come spesso succede in questi casi, si sono ulteriormente sviluppate. Da una parte la Roma tormentata e disastrata raccontata da qualche organo di stampa e fonte di dibattito pubblico tra radio e social network, dall’altra quella operosa e convinta che tra Trigoria e viale Tolstoj sta lavorando alacremente per affrontare l’attesa ripartenza del calcio italiano con un occhio attento alle incombenze sportive più che a quelle finanziarie, queste ultime peraltro scadenzate più avanti nel tempo nell’ambito dei provvedimenti anticrisi assunti dal governo.
Confronti interni non mancano, com’è normale che sia per una società che si ritrova con un evidente squilibrio finanziario che proprio la ripartenza, però, potrebbe contribuire a ridurre, nel caso in cui dal campionato o dall’Europa League arrivasse il lasciapassare per la Champions League del prossimo anno, con relative prebende. Ma insomma è ovvio che un amministratore non possa/debba essere contento del rosso a tre cifre, che un direttore sportivo sia costretto a lavorare all’interno di un recinto così stretto, che altri esponenti del management si chiedano dove e come poter operare per migliorare i risultati di loro competenza.
Ed è altrettanto ovvio che l’estenuante attesa per il sì definitivo allo stadio abbia sfibrato anche la tempra (del dirigente) più tenace. Ma queste erano tutte valutazioni che in qualche modo erano note e persino ormai assimilate nei tristi giorni della pandemia quando c’era anche lo spettro della sospensione definitiva che avrebbe annullato anche la speranza di riagganciare la Champions sul campo. (…)
FONTE: Il Romanista – D. Lo Monaco