Un predestinato. Ma perché tutti lo raccontano così? La risposta è semplice: perché ci sono doti naturali che il tempo e i buoni maestri possono affinare, amplificare. E De Rossi di ottimi maestri, nel corso di una carriera strepitosa, ne ha avuti tanti. Studiandoli sin dai primi passi, perché la curiosità, come diceva Goethe, è alla base della conoscenza. Ed è così, con il naso sempre all’insù, per respirare meglio l’aria del “suo” mare, che Daniele De Rossi ha cominciato – all’Ostiamare – a immaginare.
Un’altra lezione che ha poi tenuto a mente è stata quella di Francesco Rocca, che ha incrociato come commissario tecnico dell’Under 20. Da lui ha assorbito la sacralità e il rispetto per la professione, oltre alle prime e utili nozioni – da un mago anche della preparazione – sulla necessità di puntare sempre alla perfezione atletica. Un indirizzo che non ha smarrito neppure a distanza di vent’anni. Se ha un dubbio, Daniele sa sempre dove e a chi rivolgersi: «Scusi, mister. Mi spiega questa cosa…».
De Rossi è sempre stato un professionista nella testa, prima ancora che con la penna in mano per una firma sul contratto. Che gli ha garantito, perché è giusto che succeda, Fabio Capello: è stato lui a farlo debuttare prima in Champions League e poi in campionato. E mille volte gli ha ricordato quello che più conta anche nel pallone: l’equilibrio. In campo, perché se sbagli non c’è tempo per recuperare, e fuori, perché ci sono grandissimi talenti che si sono persi per inseguire l’emozione di un momento.
Bruno Conti che non è stato solo il suo allenatore per una stagione, ma piuttosto il suo riferimento per tutte le stagioni. D’altronde è stato lui a scoprirlo, in uno stage a Nettuno, “fuori casa” rispetto alla sua Ostia, finendo per rimanere impressionato dal carattere di quel ragazzino che non ci stava a perdere. Ma Conti, per tutta la sua vita in giallorosso, gli ha insegnato a lavorare sempre un tono sotto. Un campione del mondo, sembrava dirgli Bruno anche con i suoi silenzi, deve dimostrare di esserlo ogni giorno. Dunque niente presunzione. E così anche Daniele – con Marcello Lippi -ha poi vinto il titolo più bello.
Ma è Spalletti che forse lo ha influenzato di più. La centralità del gioco, i triangoli in continuo movimento, l’individualità al servizio dell’orchestra. Dal punto di vista strettamente tattico è stato il maestro più importante. A cui si ispira, al di là del modulo.
FONTE: Il Romanista – F. Pastore