Sono abbonato alla ROMA da quarant’anni. Immaginatevi un bambino delle elementari con i capelli a caschetto, le scarpe rovinate dai calci a un pallone e la spilletta UR appuntata sul grembiule: contavo i giorni che mi dividevano dall’andare allo stadio e la notte prima di ogni partita, per farla arrivare più velocemente, correvo a letto illudendomi di potermi addormentare prima. Macché, era peggio. Le cose belle, a quell’età, più le aspetti e più sembrano non arrivare mai anche se poi, crescendo, uno si rende conto che pure quell’attesa contribuiva a spargere la magia dappertutto.
Quando facemmo a pezzi la juventus nell’anno della rimonta – 16 marzo 1986, 3-0! – rinunciai, pur di poter andare all’Olimpico, a quattro giorni a Firenze con la classe. Facevo la prima media e la professoressa di italiano, non vedendo la mia adesione, mi chiese come mai non avrei partecipato. Ascoltando la risposta, quasi infastidita, rilanciò dicendo: “E te rinunci a una gita per una partita?!?”. “Non per una partita, per la ROMA”.
Sono cresciuto in questo modo: un sempreverde chiodo fisso che negli anni, anziché perdersi, mi si è continuato a conficcare così tanto nella carne che ormai, di quella carne, ne è parte integrante. E pure se intanto il calcio è cambiato e di tutto quello che ci aveva fatto innamorare non c’è rimasto più niente, se non la nostra strafottente e poetica convinzione di essere l’eccezione alla regola, la mia voglia di esserci-sempre non è stata mai intaccata dagli anni, dalle responsabilità e dalla vita stessa.
Sapete perché vi ho torturato con una premessa così lunga? Per potervi dare la reale dimensione di quanto elaborata, frustrante e dolorosa possa essere la mia decisione di rimanere, per la prima volta nella mia vita, fuori lo stadio – anziché dentro – mentre gioca la ROMA. Fuori non perché disinnamorato – detesto questa parola – ma proprio perché innamorato come il primo giorno, fuori non per sentirmi protagonista ma per evidenziare quanto, e come, a certi protagonisti, per davvero, non si può rinunciare e figurarsi poi se con un burocratico ma irrazionale colpo di spugna. Fuori perché Tirana non me la dimenticherò finché campo ma non baratterei mai nessuna coppa con la nostra scintillante consapevolezza di essere differenti da qualsiasi altro. Di essere proprio un’altra cosa.
Quella cosa si regge su dei valori, su dei comportamenti, su un Lupetto disegnato sopra un diario, su una maglia di Dybala impacchettata sotto un albero di Natale, sui dolci ricordi dei nonni ai loro nipoti mentre gli raccontano la ROMA con cura. Ecco, la ROMA si tratta con cura. E pure se ben chiaro il diritto, da parte di chi mette i soldi, di prendere le decisioni… voglio avere, ancora, l’illusione di potermi mettere – pure per poco. Anche solo per mezz’ora – di traverso tra la sciatteria e la ragion d’essere, tra l’idea arrogante di poter trattare le persone come oggetti e la convinzione, invece, che le persone rappresentano il patrimonio più grande di questa squadra.
Se, come è vero, non ho mai avuto né avrò difficoltà nel riconoscere eventuali meriti alla presidenza allo stesso modo, e con la stessa convinzione, oggi – e più in generale dal silenzio di Budapest (!) passando per i tempi, e i modi, dell’esonero di Mourinho attraverso il vuoto cosmico ai funerali di Losi per arrivare fino, naturalmente, alla maniera in cui è stato trattato Daniele De Rossi – questi trenta minuti, fuori invece che al mio solito posto, li devo a me stesso. A quel ragazzino con la spilla giallorossa sul cuore.
FORZA MAGICA ROMA!
FONTE: Il Romanista – Danilo per la Roma