Noi, a Roma, siamo abituati a tutto. Scioperi, manifestazioni, cantieri, buche. Noi non temiamo nulla. Siamo abituati ad attraversare città e tempo riuscendo ad essere qui e lì allo stesso tempo. Tutto sommato, viviamo quotidianamente questi spostamenti spazio-temporali mantenendo sempre una certa serenità d’animo. E la manteniamo anche se ogni giorno affrontiamo prove temerarie, tipo l’attraversamento del semaforo di Caracalla o di quello di Belle Arti, che sono ostacoli che superi solo se, fin da piccolo, hai passato in quegli incroci lunghi periodi della tua vita.
Siamo abituati a tutto, dicevo. Sappiamo quando convenga percorrere Lungotevere tutto sul lato destro oppure su quello sinistro. Sappiamo cosa ci aspetti all’Ara Pacis. Conosciamo la speranza che ti avvolge davanti al Ministero della Marina, quando la carreggiata si allarga. Soffriamo davanti al Convitto, che invece di girare a destra ci mandano a Piazza Bainsizza, e poi, da lì, sei dentro una giungla di macchine. Ma sopportiamo tutto.
Sempre. Ma quando tu, Ceferin, mi metti una partita della Roma, all’Olimpico, alle sette meno un quarto di un pomeriggio feriale di dicembre, tu, Ceferin, dovresti essere in macchina con me, seduto accanto a me, per capire, una volta per tutte, che la Superlega, rispetto a quell’esercito di macchine incastrate che ti si para di fronte, non è stata la prova più difficile che tu abbia dovuto affrontare nella tua vita.
Perché una cosa è arrivare con qualche minuto di ritardo ad un qualunque appuntamento. Altra è perdersi il fischio di inizio quando gioca la Roma (con telefonate, da macchina a macchina, paradossali, del tipo: «’Ndo stai?» «Sto bloccato sul Lungotevere» «Sul Lungotevere dove?» «Sul Lungotevere qua»).
Con questo stato d’animo, quindi, e con i minuti che scorrevano veloci verso le sette meno un quarto, disperato perché la scienza non avesse ancora inventato il teletrasporto, mi approssimavo allo Stadio. E, dalla voce di Massimiliano Magni, apprendevo che quella che avrebbe dovuto essere una serata tranquilla, in cui la sola cosa rilevante avrebbe dovuto essere il risultato, non lo sarebbe stata. Perché Radio Romanista mi informava che, nell’undici iniziale, ci sarebbe stata la presenza di Pelle.
Ed allora l’ansia di arrivare in Tevere, sapere quale sarebbe stata la sorte, quella di Pelle e, conseguentemente, la mia, quale suo strenuo difensore, si faceva, via via, più incontenibile. Già dai tornelli, però, notavo, nell’aria qualcosa di diverso. I commenti della scorsa settimana, così duri nei suoi confronti, si erano stemperati («Secondo me oggi gioca bene»).
Ed il merito di questo cambiamento, non avendo Pelle fatto nulla, in campo, per fare ricredere qualcuno, era attribuibile a Ranieri («Vedrai che la cura Ranieri gli avrà fatto bene»). Che, dopo la resurrezione di Paredes ed Hummels («Se Paredes e Hummels giocano, è merito suo»), aveva lasciato intendere che vi sarebbe stato qualche altro miracolo («Tu vedrai: farà giocare bene prima Pellegrini e poi pure Soulè»).
Ma che non solo di cambiamento si trattasse ma di una vera metamorfosi kafkiana lo percepivo, una volta raggiunto il mio agognato seggiolino, non sentendo più i soliti (ingiustificati) fischi. Cercavo, con lo sguardo, il mio valoroso interlocutore di Roma-Lecce, non volendomi sottrarre al guanto di sfida. Se Pelle, difatti, avesse, da lì a novanta minuti, fallito, sarei stato pronto ad affrontare un nuovo certame dialettico, pronto a riconoscere le eventuali sbavature del Capitano.
Ma la Storia, l’abbiamo capito, la fa Ranieri. È lui che piega gli eventi, non il contrario. È lui che ha dimostrato che il campionato più ricco del mondo lo possa vincere anche il Leicester. Ed è lui che ha dimostrato che, se gli dai una squadra, quella squadra fa il suo. E che qualunque suo giocatore, si chiami Pavoletti o Saud, una pagina, magari una paginetta, di meraviglia sportiva arriverà a scriverla. E, più passavano i minuti, più la Storia accettava di essere indirizzata da Ranieri. Che ha capito tutto.
Perché dopo pochi minuti era chiaro che Pelle fosse tornato, che Hummels sapesse fare contemporaneamente il libero ed il mediano («Tiene difesa e centrocampo»), che Saud, con tutta la sua spontaneità tecnica, potesse avere un significato su quella fascia («Gli manca l’esperienza, ma i mezzi ce l’ha»). Perché, quando, dopo una manciata di minuti, il Capitano era sempre lì, tra gol, traverse ed occasioni, ancora di più si comprendeva come tanti, di quei fischi passati, fossero stati francamente fuori luogo. Perché un giocatore così giocherebbe dovunque. E non è mai un problema, semmai una soluzione.
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FONTE: Il Romanista – F. Vecchio
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