Tuo padre, Hugo, ha segnato la storia del Boca Juniors con il quale ha vinto la Coppa Libertadores nel 1978. Ti ricordi come ti ha parlato del calcio?
“Quando ero un bambino, mi ha parlato molto di come era lui in passato. Fu costretto a porre fine alla sua carriera quando aveva solo 26 anni a causa di numerosi infortuni, ma ha vinto molti trofei in Argentina con il Boca. Mi ha detto del suo ultimo anno con Maradona, i suoi pochi momenti in nazionale… E’ così che è nato il mio amore per il calcio”.
E per il Boca giusto? “Naturalmente, e ho avuto l’onore di giocare alla Bombonera. Ho giocato sei mesi per il Boca nel 2014, è stato incredibile. Nella mia carriera ho giocato in molti stadi, il Bernabeu, al Nou Camp, Old Trafford, all’Olimpico ora, ma la Bombonera è diversa. Anche quando si è in panchina, sei felice perché vedi queste facce, senti canzoni che non si fermano mai… Voglio che tutti sappiano che questa sensazione è particolare per un giocatore”.
Hai iniziato a giocare a calcio nel Boca, è stato difficile essere il figlio di Hugo? “Inevitabilmente, quando si arriva in questo ambiente hai dieci, dodici anni, tutti pensano che sei lì grazie a ciò che ha fatto tuo padre. Dovevo dimostrare ogni giorno che avevo le qualità per stare al Boca. E’ difficile per un bambino, così ho lasciato il Boca per unirmi al Deportivo Morón che era in seconda divisione argentina. E’ stato più facile per me, nessuno mi conosceva e ho trovato la libertà che volevo”.
Le persone della tua età erano dure con voi? “Sai, in questo momento della vita i giovani sono più o meno in competizione tra di loro. E’ un momento difficile. Ogni anno, si è tra 1000 e 2000 i bambini che vengono a fare i test per giocare nel Boca. E’ una battaglia, e la maggior parte dei giovani che sono lì provengono dai quartieri poveri di Buenos Aires. Vengono con la volontà di salvare le loro famiglie con il calcio. Non ero preparato per questa atmosfera”.
Hai sognato di giocare in Europa? “In realtà per lo più ho sognato di giocare a calcio. Non ho pensato a tutto ciò che poteva accadere dopo. Quando ho iniziato a giocare con il Deportivo Morón, in seconda divisione, avevo già raggiunto il mio sogno. Tutto ciò che poteva accadere poi non era un sogno, io non pensavo a Spagna, Italia, Europa…”.
Prima di firmare per il Siviglia nel 2007, hai incontrato i dirigenti dell’Atalanta. Ti interessava il calcio italiano in quel momento? “Diciamo che quando ero più giovane ho guardato molto il calcio italiano. Mi ricordo di alcune partite tra Lazio e Roma, con le tifoserie abbastanza vicine alla cultura di quelli argentini… La mia scelta di andare al Siviglia era per lo più in relazione alla lingua in realtà. Avevo diciotto anni, ho dovuto prepararmi per vivere da solo, aveva già parlato di Siviglia, e alla fine ho deciso di andare lì”.
Sei arrivato in Spagna con tua madre. E’ stato difficile cambiare la tua vita? “Ho sempre avuto il desiderio di vivere da solo. Non so perché ma è sempre stato in me. Mia madre rimase con me a Siviglia per tre mesi, perché dopo finì il suo permesso di soggiorno. Stavo giocando con il club giovanile, sono arrivato con un amico argentino che era come mio padre, sua moglie mi ha dato da mangiare, spesso mi invitava a cena, quindi l’adattamento è stato più facile. Siviglia è senza dubbio una delle città più belle che abbia mai visto in vita mia. Ho trascorso lì sette anni anche se, ovviamente, mi mancava la mia famiglia e anche i miei amici”.
In Argentina avevi iniziato a studiare psicologia… “Sì, ma sono stato costretto a fermarmi dopo due o tre mesi, perché dovevo andare a vivere a Siviglia. Al mio arrivo in Spagna ho iniziato un corso di criminologia. Il club giocava in Champions League, ero diventato internazionale e ho cominciato a sentire una strana sensazione: gli altri studenti mi guardavano di traverso perché ero un calciatore… Siviglia è una città abbastanza piccola, non è come Roma dove avrei potuto andare all’università e non essere riconosciuto da tutti. Lì l’università era a poche centinaia di metri da casa mia”.
E’ stato difficile da accettare? “Non proprio perché sapevo che non potevo far combaciare gli studi e il calcio per tutta la mia carriera. Nel corso del tempo ho perso la passione. Oggi non posso sistemarmi dietro ad un tavolo con dei documenti per tre o quattro ore, ho avuto tempo da giovane ma ora non ne ho”.
A Siviglia ti sei infortunato spesso e alcune persone ti hanno buttato giù. Hanno detto che eri un animale da festa… “Si deve vivere questa situazione per capire. Quando sei infortunato tre o quattro volte al ginocchio, e devi essere operato, sei sfortunato. In caso contrario, sei colpevole. Un esempio: quando si dispone di un infortunio muscolare, è perché si beve troppo alcol, si dispone di uno stile di vita sporco, non vai mai a dormire… In quel momento, avevo un po’ più di venti anni e hanno detto che ero un animale da festa. Sai cosa, ero solo in casa, stavo mangiando da solo e in effetti, a causa della mia condizione fisica, non ho visto nessuno. Il mio obiettivo era quello di lavorare per essere in grado di tornare a giocare e dopo ho sentito tutte le bugie. Questo è qualcosa che ti uccide. In questi casi è necessario stare in silenzio e lavorare perché non si può impedire alla gente di dire qualsiasi cosa”.
Soprattutto la stampa? “E’ sempre complicato, soprattutto quando si è in un piccolo paese dove tutti si conoscono e amano il calcio. Se non si gioca, non si è al ristorante con il resto del gruppo, non si può parlare. Dal momento che io gioco, agisco professionalmente perché amo questo lavoro. Sì, per me è lavoro. Così quando sento la gente che dice, “Perotti si infortuna perché lui esce e rientra tutte le sere cotto“, voglio ribellarmi, è normale. Si deve sapere che io odio l’alcol eh. Ma bisogna mantenere la calma”.
E’ vero che hai pensato al ritiro? “Sì, quando sono andato al Boca nel 2014. Ero stufo di vedere gli altri giocare e io fuori per gli infortuni. La testa mi diceva di smettere. Ho parlato col mio agente e avevamo un contratto da onorare col Siviglia, poi a Genova sono rinato. Gasperini mi ha fatto lavorare al 150%, è come se avesse premuto il tasto ‘ripristina’ del mio corpo. In Italia ho imparato a sopportare il dolore e a superarlo”.
Spalletti? “Il mister ha avuto una parte importante nel mio successo, parlava tanto con noi ed è riuscito a tirare fuori il meglio dal gruppo”.
Totti? “E’ stato difficile vederlo in panchina questa stagione. Ho capito subito cosa rappresentava per la società e i tifosi. Una leggenda, un punto di riferimento, è il re di Roma”.
La vostra che stagione è stata? “Avevamo i mezzi per vincere l’Europa League, così come la Coppa Italia. La Roma è forte, ma il calcio è deciso dai dettagli”.
Tornerai a giocare in Argentina? “Per il momento voglio vincere ancora qualcosa in Europa, ma un giorno sicuramente. Col Boca per esempio sono in debito, mi piacerebbe cambiare l’immagine che ho lasciato là”.