Nella casa dove è cresciuto Manu Koné aveva un balcone che affacciava sullo Stade de France. Era il più piccolo di una famiglia numerosa, cinque fratelli, e lui per giocare a pallone coi più grandi faceva pure a botte. Parigino ma non ultras del PSG, amava già il pallone per quello che era: un modo che lo faceva esprimere. A 10 anni è andato via di casa per andare a giocare, poi ha fatto sempre i “soliti” sacrifici che si dicono che si fanno in questi casi, ma per un ragazzo così piccolo e così lontano da una famiglia e da una casa così “grande” lo sono stati veramente. Per questo quella specie di calma, ma ancora di più determinazione, che ha in campo Manu Koné ce l’ha pure quando parla con noi. Sicuro e convinto, senza particolari timori, anzi nessuno. Ma non per spavalderia, tutt’altro: consapevolezza, semmai: «Del calcio non ho paura di niente perché è calcio. Mi prendo le responsabilità e gioco di conseguenza. Nessun pentimento nell’essere venuto a Roma, io qui ci resto a lungo per vincere. Possiamo vincere l’Europa League? Oui». Cioè sì e basta. Che tu sia benedetto Manu Koné.
Manu, come procede con lo studio dell’italiano? «In campo inizio a capire sempre di più, la comprensione va migliorando gara dopo gara ma con i compagni mi esprimo ancora in francese. Il tedesco? No, non l’avevo imparato, meglio l’inglese».
Un inizio complicato qui a Roma. Ti sei mai pentito di aver scelto il club giallorosso? No, vero? «No (sorride, ndr), assolutamente. La Roma è una grande squadra e sono assolutamente orgoglioso di farne parte».
Hai raccontato che uno dei motivi per il quale hai scelto la Roma è stata la possibilità di lavorare con De Rossi. Con quale concetto ti aveva convinto a venire? «A lungo mi aveva spiegato come mi avrebbe utilizzato, senza dubbio una delle ragioni che mi ha portato qui era il feeling che si era instaurato tra di noi, ma ripeto la Roma rimane un grande club. Non c’è stato purtroppo il tempo per conoscerci meglio, non nascondo che per me è stato un piccolo shock il suo esonero, ma sappiamo bene come va il calcio. Io ho uno spirito competitivo ma sono stato molto dispiaciuto per lui. In estate mi ha detto che aveva bisogno di me, della mia qualità e che mi aveva seguito con attenzione durante i Giochi Olimpici: in sintesi per lui ero il giocatore perfetto».
Dopo De Rossi è arrivato Juric. Ci racconti qual è stata la reazione del gruppo? «Quando è arrivato il nuovo coach, il passaggio è stato talmente rapido che non c’è stato troppo tempo per parlare tra di noi, ci siamo solo detti di dare il massimo per noi stessi e per i tifosi. Volevamo cercare di dimostrare in campo quello che valevamo».
Diversi allenatori in pochi mesi, eppure hai dimostrato una grande qualità di adattamento. Qual è il tuo segreto? «Non direi che ci siano segreti, da quando sono piccolo sono abituato a farlo. Ho lasciato la mia famiglia a 10 anni, mi allenavo lontano da casa anche a Tolosa, idem in Germania e solo con le mie forze sono riuscito ad impormi. Semplicemente so che se lavoro bene in campo, allora dimostrerò le mie qualità».
Quando eri bambino a Parigi abitavi vicino allo Stade de France, è vero? «Vero, abitavo nella periferia di Parigi, a circa 10 minuti dallo Stade de France, e si vedeva da lontano: da bambini giocavamo per strada e sognavamo un giorno di giocarci dentro. Spesso mi capitava di giocare con quelli più grandi, anche con i miei fratelli. La famiglia? Siamo 8 nel complesso, ma a Roma sono solo. Mio papà ha giocato in Africa, i miei due fratelli uno gioca da semiprofessionista e uno nei dilettanti».
Avevi una squadra del cuore? «Da piccolo ero tifoso del PSG per ovvi motivi, ma ero affascinato dal Real Madrid e seguivo Drogba, anche per le sue origini ivoriane».
Dalle Olimpiadi alla Roma fino alla nazionale maggiore: è il momento più importante della tua carriera? «Sono un tipo a cui piace prendersi le proprie responsabilità, ho grande fiducia nelle mie qualità. Sono state tutte tappe molto importanti in pochi mesi, dalle Olimpiadi alla Roma fino all’esordio con la nazionale francese, ma per me non è stato uno shock o una sorpresa, ma la logica conseguenza del lavoro che avevo fatto. Qualcuno può avvertire la pressione, ma in campo io entro sempre con la tranquillità di chi sa quello che può fare».
Arriviamo al derby di domenica. È il primo vero della tua carriera… «Ne ho giocati altri, ma tra squadre rivali e non un derby di città come questo. Per me sarà la prima volta, capisco che è qualcosa di enorme, ma veniamo da una bella prestazione. Cercheremo di fare del nostro meglio».
Se dovessi segnare, hai già pensato a qualche esultanza? Magari ancora con la bandierina… «La cosa più importante è vincere, partiamo da questo. Poi quando ho segnato con il Lecce e ho alzato la bandierina ammetto che non sapevo che mi sarebbe costata un cartellino giallo. Bisogna quindi stare attenti, ma a fine partita ci penserò».
Hai già avvisato Guendouzi che lo batterai? «No, no (ride, ndr), ma quando siamo stati in nazionale abbiamo già parlato del derby. Domenica poi ci saranno tanti francesi, c’è anche Enzo, ma in campo per me non ci sono amici, sarà una battaglia. Nessuno sconto».
Sei un giocatore che ha grandi margini di crescita dal punto di vista realizzativo. Sei più da gol o da assist? «Vero, crescendo negli anni ho sempre più occasioni per segnare, ma in realtà la mia idea resta sempre quella di fare la scelta giusta: se un compagno è meglio piazzato di me, preferisco passargli il pallone. Se qualcuno si lamenta? No…(ride,ndr). Ma Artem, come normale che sia, vuole sempre il pallone in area di rigore».
Che rapporto hai con il capitano, Pellegrini? Sta attraversando sicuramente un periodo complicato… «Molto buono, molto bello, mi ha accolto nei migliori dei modi, è uno di quelli che scherza spesso con me e per noi è un giocatore molto importante: si allena sempre forte, lui è sempre lì per aiutare la squadra. Ma soprattutto è un esempio per tutti noi».
Al netto delle difficoltà di questa stagione, che posto ritieni dovrebbe avere la Roma in campionato? «Abbiamo avuto un inizio complicato, con tre allenatori e abbiamo faticato a trovare il ritmo, ma ora siamo sulla strada giusta. Siamo sempre più coesi come gruppo e anche in allenamento, va sempre meglio. Difficile ad ogni modo dare indicazioni di dove potremmo arrivare, ma spero il più alto possibile per poterci qualificare in Europa per la prossima stagione».
La Roma è una squadra attrezzata per vincere l’Europa League? «Sì».
In tutto questo trambusto, la squadra quanto ha percepito la famiglia Friedkin presente? «Noi avvertiamo sempre la loro presenza, li sentiamo sempre vicini e ci hanno sempre messo nelle condizioni migliori per vincere le gare. Al momento non sono di certo contenti dei risultati, ma siamo noi a dover rispondere sul campo, rispondere così alle loro attese per realizzare il loro progetto».
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FONTE: Il Romanista – D. Lo Monaco / T. Cagnucci / A. Di Carlo