Daniele De Rossi, lei è diventato uno dei saggi del calcio italiano. Era capitan futuro ora è capitano e basta, nel senso pieno del termine. Cosa è successo in lei in questi anni?
«Per prima cosa grazie per la definizione di saggio del calcio italiano. Credo di essere una persona equilibrata. Mi è sempre stato riconosciuto, anche durante le prime fasi della mia carriera. E’ il mio carattere. Dentro il campo, ogni tanto, ho un po’ macchiato questa immagine con quelle uscite di foga che mi hanno sempre caratterizzato. Adesso anche in campo riesco a controllarmi meglio e sarebbe grave se non fosse così, a trentaquattro anni. Credo di venire reputato, anche dagli avversari, come una persona a modo. Il fatto di essere riconosciuto come saggio è forse dovuto al fatto che io non parlo tantissimo. E quando non parli tanto è molto più alta la probabilità di non dire stupidaggini. Il fatto di essere capitano a tutti gli effetti poi è una differenza che non sento molto durante la stagione, durante il mio lavoro, nella quotidianità. Ma capisco che qui la gente ha comunque bisogno di vedere un capitano romano, che sia tale non solo per il numero di partite giocate, ma per l’attaccamento profondo alla maglia e alla città».
Quanto è contato diventare padre per lei? «E’ la cosa che conta di più per qualsiasi persona: penso che cambi, chi più, chi meno, tutti gli uomini. Io sono padre da tanti anni, esserlo diventato da giovane è stata un’esperienza completamente diversa dal ridiventare padre con sette o otto anni di differenza. Sei più consapevole di quello che stai facendo, ti godi diversamente anche la vita nel campo, perché sai che quella è una parte importante di te ma a casa hai davvero quello che conta per la tua felicità».
Ma lei è sei stato anche figlio oltre ad essere padre, quanto ha contato suo padre nelle sue scelte? «Nella mia scelta di fare il calciatore non direttamente. Non è mai stata né un’imposizione né un consiglio, né un continuo invogliarmi. Però quando già a due o tre anni sei scarrozzato in tutti gli stadi della serie C, automaticamente convivi con qualcosa di familiare. Non lo vedi come un lavoro, lo vedi come un gioco. Per tutti, o quasi, il proprio padre è un eroe. Il mio lo era quando ero bambino e lo è ora. i miei genitori ho imparato, nel tempo, ad amarli e stimarli ancora di più. Mio padre è conosciuto e apprezzato per il suo lavoro ma anche mia madre, che sta un po’ più dietro le quinte nella nostra famiglia, è una persona della quale andare fiero. Sono due persone delle quali andare fieri».
Perché è difficile vincere a Roma? «Questo è un discorso che meriterebbe un’intervista tutta per sé. E’ difficile vincere a Roma perché ci sono società più potenti a livello economico, con più storia alle spalle, per quel che riguarda le vittorie, e, lo sappiamo, “vincere aiuta a vincere”. La Juve in questi anni ha avuto uno strapotere finanziario certo, grazie allo stadio ma anche per come hanno gestito il capitale umano di cui disponevano. E si sono tolti di dosso l’immagine dell’ultima gestione, che era stata vincente ma aveva delle macchie gigantesche sul groppone. Noi gli siamo sempre stati dietro negli ultimi anni. Passargli davanti sfiora l’impossibile, ma noi ci proviamo, non abbiamo mai mollato, non abbiamo mai smesso di tentare di farlo, non ci nascondiamo dietro a questo loro strapotere, partiamo alla pari con tutti quanti».
C’è anche un aspetto ambientale? «Negli anni mi sono convinto che non sia così determinante come pensavo quando ho iniziato. Sai “Oddio le radio hanno massacrato quel giocatore…”, sì ma poi non vanno in campo le radio, vanno i giocatori. Certo, le radio, i giornali, l’estrema passione che c’è in città ogni tanto portano a superare i limiti. Secondo me hanno fatto un danno, hanno stravolto quel senso di “romanismo” che esisteva un tempo. Il romanista prima difendeva sempre un altro romanista, difendeva il proprio giocatore anche se era il più scarso. Era proprio una famiglia, qualcosa che univa tutti quanti perché “noi siamo romanisti, noi siamo romani, noi siamo una cosa diversa da voi“. Adesso c’è una facilità nel dividersi per qualsiasi cosa che se non ha portato meno punti in campo sicuramente non ha aiutato a vivere meglio quello che si faceva. C’è una sorta di tendenza a creare un po’ di scompiglio, qualcuno perché ha degli interessi a farlo, altri perché poi siamo proprio portati a fare questo. Si tende a supportare le proprie idee fino alla morte. Se io ho detto nel 2006 che De Rossi è scarso io devo accompagnare questa mia teoria fino alla morte. Nessuno accetta serenamente di aver sbagliato. Credo che sia così un po’ in tutte le cose e penso che oggi i social network abbiano aiutato a tenere la gente un po’ più fissa sulle proprie idee. Quello che dicevi una volta uscito finiva, adesso è scritto, è lì, quindi chiunque ti può portare il conto di quello che hai detto. Però la chiusura del discorso è che si può vincere anche in un ambiente così complesso. Non voglio e non cerco scuse».
Di Roma città cosa le piace? E cosa invece le da fastidio? «Come diceva Benigni in “Johnny stecchino”, il traffico. Per me che lavoro a Roma sud vivere a Roma centro è pesante, per il traffico. E trovo allarmante la situazione igienica: ci sono ormai dei gabbiani grossi come i dinosauri di Jurassic Park che fanno le risse con i topi. E’ una cosa deprimente. Ma poi alzi gli occhi e vedi Castel Sant’Angelo, vedi la bellezza clamorosa di questa città meravigliosa. Giorno dopo giorno scopro sempre di più perché mi sono innamorato di Roma. E’ una città che ancora non ho finito di scoprire. E’ la città più bella del mondo. La gente nel quotidiano, non parlo del calcio, è meravigliosa. Non assilla, rispetta, è solidale».
Concluderà a Roma la sua carriera? «Non lo so. Ho sempre pensato che sarebbe molto bello se io finissi a Roma. Mi piacerebbe vivere, con le dovute proporzioni, una giornata come quella che ha conosciuto Francesco il 28 maggio. Sarebbe bello vivere un saluto così intenso con i tifosi, anche per me. Non so quando, non so come. Allo stesso tempo però avverto forte il desiderio di vivere un’esperienza altrove. Anche perché sedici anni di Roma sono come trentadue anni da un’altra parte, sono impegnativi, te li senti addosso. Ringraziando Dio non fisicamente perché sto vivendo forse le migliori stagioni della mia carriera. Ma la pressione è eccessiva, spesso».
E dunque? «Quindi questa pesantezza la senti. Io un’esperienza fuori, lontano, penso che vorrei viverla, che dovrò viverla. Sinceramente avevo deciso di farla fin dall’anno scorso: c’è stato un periodo lungo in cui non avevo contatti con la società per il rinnovo. A me non andava neanche troppo male: insomma, stavo facendo nella mia testa la mia ultima stagione, stavo giocando alla grande, quindi avrei lasciato un bel ricordo. Andava bene così. Per un certo periodo di tempo era stata questa la mia idea. L’offerta più grossa era quella di un club italiano. Ma, come si dice, non mi ha retto la pompa: non me la sentivo di tradire la città e i tifosi. Probabilmente se fosse arrivato un club europeo o americano – non è un segreto che uno dei miei sogni è andare a fare lì un’esperienza di vita e di calcio – probabilmente oggi non saremmo qui».
Come immagina il suo futuro dopo aver smesso di giocare? «Sono molto combattuto. So che devo cominciare a pensarci per tempo perché ho visto tanti miei colleghi arrivare agli sgoccioli della propria carriera e non sapere cosa fare. Francesco è stato un esempio importante per me. L’ho visto indeciso nell’ultima fase, l’ho visto non felice. Oltre a stargli vicino cercavo anche di riflettere sul suo travaglio. Quello che è toccato a lui l’anno scorso toccherà a me, tra poco. Sono molto combattuto, perché da una parte mi piacerebbe viaggiare, mi piacerebbe vedere il mondo, mi piacerebbe sentirmi libero di fare programmi a lungo termine. Con questo lavoro sei sempre vincolato e non vorrei accadesse lo stesso dopo, se restassi nel calcio. Però mi faccio due domande: “Che faccio?” Rimanere a casa dalla mattina alla sera quando non ci sei mai stato, magari porta ancora più tensione in famiglia e dentro di te. L’altra domanda è “Ti piacerebbe fare l’allenatore?” Negli ultimi anni mi sto rispondendo di sì sempre più spesso. Anche grazie al fatto che ho avuto degli allenatori che mi hanno affascinato moltissimo durante la mia carriera. Vorrei diventare come loro non per seguire il 4-4-2, 4-3- 3, 4-5-1, ma nel senso che mi sembra bellissimo un leader che guida venti giocatori che lo seguono in maniera assoluta. Mi piacerebbe, se avessi una squadra. Però mi rendo conto che è un lavoro difficilissimo, faticosissimo, stressantissimo, quindi questi dubbi rimangono e spero di scioglierli con il tempo».
Chi sono stati questi allenatori così importanti per lei? «C’è stato un periodo in cui ero allenato da Spalletti e da Conte nello stesso tempo. Allenatori molto diversi tra di loro, anche a livello tattico, diversi per il modo in cui parlano ai loro giocatori, per quello che vogliono, ma capaci di farsi rispettare dai loro giocatori. Credo che la fortuna di un giovane allenatore la facciano, salvo qualche eccezione, i tecnici che hai avuto quando hai giocato. Garcia aveva dei lati incredibili ai quali mi vorrei ispirare, Luis Enrique altrettanto. Tanti altri allenatori mi hanno dato molto. Poi ci sono stati quelli con cui non mi sono trovato bene, in verità solo uno, e in quel caso devo propormi di non fare quello che hanno fatto che, secondo me, era sbagliatissimo. Insomma ho pensato “E’ bello fare quello che fanno gli allenatori?” La risposta è che è devastante, stressante, però è molto bello. E secondo me potrei fare solo quello, nel calcio».
Con Di Francesco come si trova? «Mi trovo bene, l’ho conosciuto tanti anni fa. Lui era il De Rossi di allora e io ero il Gerson, il Pellegrini. Ero molto piccolo ed è sempre stato un compagno di squadra che esercitava la leadership in modo corretto, quello con più esperienza che tratta bene e insegna ai giovani. Come lui Tommasi, Fuser, Batistuta. Poi è stato il nostro team manager. Ruolo che adesso sta svolgendo Morgan De Sanctis e sono contento di questo. E’ un valore aggiunto per noi, una persona di qualità e potrà portare vantaggi sia alla società che a noi giocatori. Mi trovo benissimo con Di Francesco e sono contento che ora venga riconosciuto quello che sta facendo. Nelle prime partite è stato criticato senza motivo. Ora dimostrerà lui, in un anno a Roma, se è all’altezza o no, ma facciamolo lavorare serenamente. Facciamogli sbagliare dieci partite e facciamogli fare bene dieci partite. E’ stato criticato dopo un’amichevole persa a fine tournée e ho letto delle cose che non ho mai visto su nessun altro. E’ stato criticato persino dopo aver vinto con l’Atalanta. Quando vinci non ti dovrebbero attaccare, dovrebbero dire “squadra cinica”, come dicono sempre della Juve. Gli allenatori a Roma sono arrivati con grandi dubbi tutti, sono diventati fortissimi tutti, e sono diventati degli asini quando sono andati via tutti. E’ un modo di fare che non mi appartiene. Per me va giudicato il lavoro alla fine. Valutiamo la persona come si è comportata, però valutiamo i punti che fa con la squadra e valutiamo la qualità del gioco».
C’è il rischio che l’Italia non si qualifichi per il Mondiale? «Avere questa minima paura ci deve spingere a fare qualcosa di grande durante i play-off. Per noi sarà come la finale della Coppa del mondo. Se vogliamo arrivare a vincere il Mondiale abbiamo due finali da giocare prima. Penso che questo possa aiutare questo gruppo a crescere ancora di più. E penso che abbiamo fatto un girone di qualificazione ottimo. E’ un’altra cosa che non viene riconosciuta: davanti avevamo una squadra fortissima. Ero in sala stampa a Coverciano e i giornalisti mi chiedevano, “Ma forse è la Spagna più scarsa di sempre?” e io dentro di me dicevo “Questi sono matti”. E’ una squadra fortissima, con giocatori giovani che stanno sostituendo, senza perdere qualità, quelli un po’ più anziani. E’ stato di difficile tenere il loro passo, non lo abbiamo fatto perché siamo tre punti indietro, ma abbiamo perso solo una partita, ne abbiamo pareggiata un’altra sempre contro di loro e abbiamo vinte tutte le altre. Non è poco».
Lei una volta confessò a un arbitro di aver fatto un gol con la mano. Non è frequente. Le è stato rimproverato? «No, nessuno mi ha mai rimproverato. In verità devo anche dire che poi quella partita l’abbiamo vinta facilmente. E’ stata una cosa istintiva. Era clamoroso, il fallo di mano. Ho pensato: non se ne è accorto? Mi vergogno troppo. Non si può vincere una partita così, sarebbe una macchia troppo grande, una vergogna troppo grande. Meglio di no. E’ stato un ragionamento durato cinque secondi. Lo rifarei. Però sinceramente ogni tanto penso che se quella squadra invece di avere la maglia del Messina avesse avuto la maglia della Juve e magari ci stavamo giocando lo scudetto, le cose potevano andare diversamente. Almeno nel giudizio degli altri. Sarei ipocrita se dicessi il contrario».
Qualche giorno fa ero in Islanda. Dovevo partire presto e il portiere di notte di un albergo vicino Rejkiavik, sentito che eravamo italiani, la prima cosa che ha detto è stata “Che fa Totti?” Non mi ha chiesto del Papa, ma che fa Totti. Che cosa è stato e che cosa è oggi Francesco? Come le sembra in giacca e cravatta? «Io l’ho visto sofferente, durante la passata stagione. L’ho sentito questa estate: era un po’ indeciso. E’ comprensibile, il trambusto che c’è stato intorno a lui, e che c’è sempre stato intorno alla sua carriera, era forte. Questa volta si è prestato a fare qualcosa di nuovo, a non mettere più le scarpe da calcio ai piedi, quindi lo scombussolamento è comprensibile. Io adesso lo vedo bene e non pensavo che lui si adattasse così in fretta a questo nuovo ruolo. Non è importante quale sia il ruolo di Totti. Lui è lui. Non è più il capitano della squadra, non è più il giocatore che sappiamo. Non deve essere facile. Credo che lo aiuti molto il fatto che chiunque, appena esce di casa, lo chiami capitano. Lo vede ancora con la maglietta della Roma addosso. La giacca e la cravatta, sono come il vestito di Clark Kent e Superman che si cambia nella cabina telefonica e poi tornano il numero 10 e la fascia al braccio. Sa gli immortali? Quelli che finiscono sui libri di storia? Io a lui in privato ho sempre consigliato di finire un anno prima, di finire dopo Roma-Torino. Non è stata una stagione piacevole per lui, per l’allenatore, per noi compagni perché si viveva come quando hai papà e mamma che litigano a casa. Secondo me non è stato piacevole neanche per chi è veramente tifoso romanista, che ha vissuto questa separazione, ha sofferto per questa lotta interna che era evidente. Noi potevamo dire “no, vanno tutti d’accordo, non ci sono problemi”. Ma non era vero. Per come l’ho visto malinconico durante il suo addio, ed era comprensibile, non pensavo si adattasse così in fretta. Secondo me sarà un valore aggiunto e si renderà conto con il passare del tempo che potrà fare delle cose devastanti per la Roma anche in giacca e cravatta, anche senza entrare in campo. E che a quarantuno anni, uno come Francesco Totti a Roma è molto più utile adesso piuttosto che quando giocava tre minuti in Roma-Carpi. Ora lo vedo partecipe, con il mister e anche con Monchi. Mio padre mi ha raccontato che gli ha chiesto del settore giovanile, si informa ed è una risorsa importante. Una esperienza come quella di Totti in una società non ce l’ha nessuno. Qui stiamo parlando di un figlio di Roma che può fare delle cose gigantesche. Dopo aver imparato quello che bisogna fare dietro la scrivania, perché c’è bisogno anche di studiare il nuovo ruolo, la Roma sarà tutta in mano sua. Non c’è un finale diverso».
Secondo lei Buffon sarebbe un buon presidente della Federcalcio? «Gigi è un un competitivo. Credo che anche lui stia pensando a quello che potrà fare dopo. E’ una persona positiva, diretta, schietta, da compagno di squadra è incredibile, un motivatore, un vincente clamoroso. Credo che sarà un grande dirigente anche lui. Non so se in Federcalcio, lo spero. Sarà un uomo da non perdere come secondo me non erano da perdere Maldini, Baggio. Perdere Maldini per una federazione è una cosa secondo me folle e assurda, quasi una bestemmia a livello calcistico».
Il momento più bello di questi anni e il momento più triste? «A Roma di trofei ne abbiamo alzati pochi ma quei momenti sono stati intensi. Però la cosa bella è guardare alle spalle e ricordarsi i tragitti, i personaggi, gli amici che hai conosciuto e chi non ha una bacheca piena di vittorie si aggrappa, non solo per necessità, a quelle che sono state le esperienze umane, a quelle che sono state le amicizie che hai condiviso nello spogliatoio, a quelle persone che hai aiutato o a quelle che hanno aiutato te. Poi, uscendo dallo spogliatoio, momenti meravigliosi come quegli abbracci di calore e di affetto che ho vissuto con la curva e con lo stadio in generale. In campo il ricordo più brutto che ho della mia carriera è Roma-Sampdoria, nell’anno di Ranieri. Una partita che se giochiamo mille volte la vinciamo non 999 ma mille volte. Non la dimenticherò mai perché mi fa ancora male, perché avremmo vinto probabilmente lo scudetto, anche se eravamo arrivati belli cotti a quel finale di stagione. Ma quello è il ricordo che, se avessi la macchina del tempo, tornerei indietro e cancellerei in un secondo. Metto a parte il Mondiale. Come ho detto la mia bacheca non è molto piena, quella è l’unica cosa che la fa luccicare un pochino. Un ricordo incredibile, una gioia enorme. E quasi un peccato che io l’abbia vissuto così presto perché è sempre lì, ma un po’ il tempo lo scolora. Avevo ventidue anni e non potevo avere la maturità per vivere tutto nel modo giusto. E’ un meraviglioso timbro che porti in giro per il mondo ovunque tu vada: non importa quanti minuti hai giocato, se hai preso un cartellino rosso, se non sei mai sceso in campo. Sei campione del mondo. Mi dispiace solamente non aver avuto sei o sette anni in più. Ora, sereno in tutta la mia vita, lo godrei ancora di più, lo godrei pienamente».