La verità è che, una volta varcati i tornelli della Tevere, il disagio te lo creano gli sguardi indagatori: che fai? Resti qui mezz’ora o sali subito? Non è una domanda da poco, perché sei appena passato davanti allo striscione che vorrebbe, semmai la tua intenzione fosse quella di prendere posto in Tribuna, crearti il dubbio se tu possa, a quel punto, essere definito un vero romanista. Il problema è, quindi, trovare un modo, il più elegante possibile, per superare quel picchetto psicologico. Perché lo sai che sarebbe giusto stare fuori mezz’ora.
Perché non è accettabile quello che DDR ha dovuto subire. E, con lui, tutti noi. Ma come si fa a stare fuori da uno Stadio quando dentro a quello Stadio gioca la Roma? Ed è a questa domanda, che ti rimbalza nel profondo, che non riesci veramente a dare risposta. E, quindi, quando incroci parole e sguardi di un grandissimo romanista che, con nome di fantasia, chiamerò “Umberto” (e per gli amici, sempre con nome di fantasia, “Umbo”), che mi pone, con la sua scelta seria, appassionata e coerente, un profondo disagio, camminando muro muro, così, che nessuno mi noti, salgo a due quegli scalini insieme a pochi altri («Veloci, nun se famo vedè …»).
Perché la testa mi dice che sia giusto rimanere fuori, ma tutto il resto mi spinge a stare lì, a non perdere un minuto. Poi, la scusa che mi do, a sostegno di questa mia vigliacchissima scelta, è che da qualche parte dovrà pur esserci un mio dovere di aspirante cronista che mi imponga di stare in Tribuna ad ascoltare i commenti di quelli che hanno deciso di non scioperare, perché i commenti di quelli che stanno fuori, in attesa del trentesimo, li posso ben immaginare, perché sono gli stessi che da qualche giorno faccio io. E, quindi, trovata questa vigliacchissima giustificazione mi siedo al mio posto, non prima di avere salutato mio figlio, ai bordi di quelle scale, mentre mi rivolge uno sguardo misto di compassione e delusione («Vabbè, papà. Contento tu. Ci vediamo dopo»).
Mi siedo al mio posto, dicevo, e lì prendo subito atto che ce l’hanno tutti con la Squadra («Mercenari», «c’è da tifare solo la maglia»). Cioè, io mi sarei aspettato di tutto e di più contro la Società, contro chi la dirige(va), contro la proprietà; invece, no: il blocco compatto è contro i giocatori, e, tra questi, contro Cristante e Pellegrini.
Colpevoli, secondo alcuni, di avere determinato l’allontanamento di DDR, il primo per quella famosa rissa, che avrebbe «spaccato lo spogliatoio»; il secondo, per avere «perso quella palla all’ultimo» (ma non solo: quel «ha i crampi pure da fermo», che mi arriva, chiaro, alle orecchie, la dice lunga sulla ricerca disperata di qualche pretesto). E tutto questo, dico la verità, mi dà tanto l’impressione di un rito di espiazione, in cui si cerca di sacrificare qualcuno perché di qualcuno certamente sarà la colpa. Ma poi, che quel qualcuno sia effettivamente responsabile, beh, questo, più che a molti, a troppi interessa meno («Non c’è po’ esse un capitano dopo Totti e De Rossi: nessuno merita quella fascia»).
La conferma di questa sensazione mi arriva dopo l’ennesimo “minuto di silenzio” che diventa il solito ed insopportabile “minuto di applausi e caciara” (staccato, il grido a gran voce, rivolto da un seggiolino ad un altro leggermente distante: «Aho, me chiami quello lì accanto a te?», con inevitabile risposta: «A bello!», e controreplica: «T’ho chamato mò che c’è meno casino così me senti», e chiusura con saluto: «Ciao, se dimo dopo», che tu ti domandi che problema abbiano avuto da piccoli). Difatti, al di là degli applausi (meritatissimi) per Pisilli (non era nemmeno il quinto che si è sentito un “Capitan Futuro” …) e per qualcun altro, fino al ventesimo (segnatevi questo minuto, perché deve essere successo qualcosa, in quell’attimo, che ancora non mi spiego) Cristante e Pellegrini venivano ricoperti di fischi ogni volta che toccavano un pallone.
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FONTE: Il Romanista – F. Vecchio