È un problema di serietà. Prima ancora che di vittorie, di sciopero del tifo, di risultati mancati, di steponfut (espressione inglese che va scritta proprio così, tutta attaccata, rigorosamente con una sola “o”, perché è così che la senti ripetere, ormai da due settimane, dovunque), è un problema di serietà. Perché l’approccio all’Inter non è tanto sul se e sul come si possa fare risultato, ma è sul chi siamo, su quello che siamo diventati e su dove stiamo andando («Non capisco il senso di questa stagione»).
Quindi si parla di DDR che, se andasse male stasera, potrebbe essere richiamato (qualcuno arriva ad azzardare anche Ranieri); ci si confronta sulle parole di Totti che vorrebbe tornare a giocare, forse prigioniero, insieme a noi, di un sogno («Pensa che meraviglia!»); si parla di Juric, che lo senti come sia, nei pensieri di tutti, come uno di passaggio, schiacciato in un mare di polemiche da cui è necessariamente estraneo.
È un problema di serietà, dicevo. Perché è come se ciascuno ci mettesse del suo per alimentare una situazione confusa, non preoccupandosi delle conseguenze. Perché poi gioca Dybala, e qualcuno ipotizza che sia lui (lui!?) il problema del gioco della squadra. Oppure che questa squadra non riesca ad esprimersi perché Juric non avrebbe schemi offensivi, quando poi sarebbe la difesa a deludere, ed il centrocampo a lasciare a desiderare, anche se Pisilli è un campione, Koné è fortissimo e Le Fée vedrai tu che stagione farà. Non ci si capisce più nulla. Stiamo dentro ad una bolla di visioni tutte diverse tra loro. Una sorta di babele in cui tu parli nella speranza di trovarne uno, uno solo, che la pensi come te, perché ce ne fosse uno che abbia un’idea in comune con qualcun altro.
Ed è questo il motivo per cui, quando l’arbitra fischia, si stia ancora lì a discutere tra chi Cristante non l’avrebbe messo e chi avrebbe voluto Baldanzi al posto di Zale, oppure chi avrebbe voluto Angeliño al posto di Zale, oppure chi avrebbe voluto uno qualunque al posto di Zale, oppure chi avrebbe «giocato in dieci basta che Zale non me lo fate più vedere». E quelli che «me devi spiegà perché no Pisilli da subito», quelli che «io Paredes lo vorrei sempre in campo», quelli che «Hummels? Perché non gioca Hummels?».
Intanto il primo quarto d’ora va via con qualche spavento; con la certezza, forse l’unica, che Svilar andrebbe incatenato a Trigoria; con la Roma che, piano piano, rimette la testa fuori. E con Pellegrini, quello inondato di fischi, che torna (giustamente) ad essere applaudito, perché lo trovi dovunque ed è quello che si rende più pericoloso. Poi c’è il problema che abbiamo il Pichichi, che ha dimostrato di sapere segnare, ma che sta laggiù a marcare Acerbi.
La partita non la stiamo giocando male. La fortuna ci assiste, perché loro si vedono costretti a fare due cambi, e non stiamo nemmeno alla mezzora, ed uno dei cambi consente al Pichichi di smetterla di giocare come Gentile su Zico, perché chi entra non è Acerbi. Ma stiamo sempre immersi in quella babele. Ce l’abbiamo con la Società, ce l’abbiamo con l’assenza del “progetto”, ce l’abbiamo perché la storia che via DDR e dentro Juric, a cui hai fatto un contratto con scadenza a giugno per andare a vincere trofei, non suona benissimo.
E l’intervallo vola via mentre ancora stiamo discutendo che, dopo Monza, «non puoi mandare qualcuno che faccia sentire la nostra arrabbiatura parlando in francese». Perché, se vuoi dire, chiaro e forte, che quello su Baldanzi fosse rigore, devi dirlo che lo capiscano tutti, e subito. Altrimenti, a quelli che dovrebbero sentire forte e chiaro, gli sembrerà di stare ad ascoltare qualcuno che, amabilmente, si trovi a conversare, del più e del meno, in un qualunque sabato mattina, a Saint Germain, tra i tavolini della brasserie Lipp.
E così non va. E così non va soprattutto perché il secondo tempo ci rendiamo conto che noi, nella loro area di rigore, non entriamo proprio. Nel senso che non è che non arrivi lì il pallone, ma che noi, tolto il Pichichi, prevalentemente ci giriamo intorno. E questo crea un senso di sfiducia, perché, malgrado tutti corrano e si diano da fare (questo va riconosciuto), non si riesce ad immaginare come si possa segnare.
Poi, a seguire, dalla Tevere iniziamo a vedere il campo al contrario: Dybala è, sì, dovunque, ma, al di là delle splendide aperture che si fanno spazio nel traffico, quello che salta agli occhi è che si veda costretto a correre per quaranta metri per fare dei recuperi che nemmeno Gattuso. Qualcosa non torna. È che non ci diamo pace di questo gioco al contrario, in cui dovremo mordere le caviglie e ripartire in contropiede. Ma, anche se le caviglie le mordiamo, in contropiede non ci andiamo ed in porta, con un’azione manovrata, non ci arriviamo. Ma giochiamo. (…)
Si, ma fino a quando non sbagliamo, che lo capisci che non è colpa del fiato, delle gambe, ma che è colpa della testa. Perché quando Zale decide di stoppare per poi scordarsi che non stai facendo un torello che, male che vada, ti prendono in giro i compagni, e quando Celik fa l’unica cosa al mondo che non andava fatta, le nostre speranze venivano tutte riposte su Svilar (che gli Dei del Calcio ce lo preservino) e su Dybala (sì, Dybala), che era andato a recuperare su Dimarco.
Ma forse sono proprio gli Dei del Calcio che hanno deciso, offesi, di lasciare che quel pallone entrasse. Perché quando vedi che Dybala è lì, esattamente nella parte opposta di dove avrebbe dovuto essere, esattamente a fare la sola cosa che altri avrebbero dovuto fare al suo posto, allora è giusto uscire da quello Stadio chiedendosi cos’altro saremo costretti a vedere. Perché va bene tutto, ma il Pichichi che marca e Dybala che difende li voglio vedere sull’uno a zero per noi, non sull’uno a zero per gli altri. (…)
FONTE: Il Romanista – F. Vecchio