Daniele De Rossi si sente ancora calciatore e vive la partita in piedi, quasi sulla linea davanti alle panchine. Quando Evan Ndicka è a terra dall’altra parte del campo rispetto alla sua postazione, anche lui scatta con i suoi ragazzi. Sono arrivati dei segnali chiari da chi sta vicino al difensore.
De Rossi ruota le braccia, le mette davanti alla faccia, poi le toglie. Tutti hanno capito che la situazione è grave: tanto che quando il gruppo dei giocatori accanto a Ndicka si volta verso gli spettatori cercando a gesti il silenzio, tutto lo stadio di colpo si spegne. L’allenatore ha il viso tirato, gli si legge in faccia la paura: parla con i giocatori, con l’arbitro Pairetto, con Gabriele Cioffi, il collega.
Chiede all’arbitro di poter andare negli spogliatoi, ci va con Gianluca Mancini che aveva tolto la pettorina e doveva entrare al posto di Ndicka, se fosse stato un infortunio normale. Quando De Rossi torna parlano le facce, la sua, quella di Cioffi mentre gli spiega di nuovo la condizione.
Non si tratta più di avversari, di pallone, di vincere e perdere. C’è un dolore umano, uno spavento che accomuna. De Rossi rincuora un paio di giocatori. Da metà gennaio è entrato nello spogliatoio con la sua personalità e la sua carica di romanità, ha portato serenità e successi. Ma è in questi frangenti che si vede come il suo carisma serva per tenere uniti i sentimenti, per mettersi in testa al gruppo e dettare la linea.
FONTE: La Gazzetta dello Sport – P. Archetti