Come si spiega tutta questa (teorica) distanza tra la partita che hanno visto centinaia di migliaia di appassionati della Roma e quella descritta a fine partita non solo da Juric ma anche da capitan Pellegrini? Può esserci un punto d’incontro tra il disfattismo assoluto della tifoseria giallorossa dopo la sconfitta in Svezia nel Borgo degli Elfi e l’ottimismo mostrato dai due rappresentativi interpreti dello stato d’animo dello spogliatoio della Roma? Paradossalmente l’unico che potrebbe mettere tutti d’accordo in queste brevi ore di vigilia prima della sfida di Monza in campionato può essere Dan Friedkin se con un altro dei suoi teatrali colpi di scena decidesse di rimuovere pure Juric dal suo incarico. Lo diciamo per provocazione, sia chiaro.
Ma dopo la scellerata decisione di allontanare De Rossi niente ci stupirebbe di più. Solo così, recita il paradosso, ci si potrebbe ritrovare tutti insieme, a piangere sull’ennesimo ferita in battaglia e a voltare pagina nel più breve tempo possibile magari con de Rossi – la provocazione va fatta bene altrimenti è inutile – oppure, chessò, strappando Ranieri alla sua pensione o magari andando a cercare qualche altro dimenticato interprete di qualche altro nuovo sistema di gioco che gli analisti di Topolinia avranno individuato come panacea di tutti i mali.
Ma stavolta non sarà così e giustamente, almeno stavolta, da Trigoria proveranno (chi?) a far fronte comune con l’allenatore, e comprendendone le difficoltà operative, magari proveranno a portare a Trigoria presto qualcuno che capisca di calcio e che abbia la voce un po’ più ferma di quella di Florent Ghisolfi.
Torniamo quindi alla domanda iniziale: a fine partita Juric era magari stordito per il freddo improvviso o è lo stordimento dei tifosi a determinare questa allucinazione collettiva alla base di tanto pessimismo? Proviamo a calarci nei panni dell’allenatore che, supponiamo, in preparazione della partita avrà fatto la sua breve analisi video sugli Elfi guidati dal suo vecchio allievo Hiljemark, e avrà ipotizzato un turn-over ragionato che gli consentiva di risparmiare qualche energia in vista della fondamentale sfida di Monza e anche di presentare una squadra teoricamente autorevole per contrapporsi agli avversari di giornata.
Il rischio che sapeva di correre era quello di avere una squadra incapace di giocare con autorevolezza e di mantenere il possesso del pallone e magari anche di limitare per quanto possibile le iniziative avversarie. Logico che dal suo punto di vista sia invece assolutamente soddisfatto della risposta data dalla squadra, almeno sotto il profilo della proposta di gioco. Le statistiche gli danno ragione in questo senso. Un allenatore non può prevedere certo ogni singola combinazione offensiva che possa portare al gol ma deve preparare il terreno per far sì che queste occasioni si presentino continuativamente.
Poi si può certo lavorare sul campo per migliorare la fase di finalizzazione, ma per quello che accade negli ultimi 30 metri il calcio resta una materia imperscrutabile. Insomma la Roma non è stata dominata dall’avversario come accadde alla squadra di Mourinho tre anni fa, non ha lasciato il pallino del gioco agli avversari, non si è smarrita cercando il bandolo della matassa. La Roma ha avuto infatti una nettissima supremazia territoriale, gestito un numero di palloni quattro volte superiore a quello dei avversari, non ha mai abbassato il suo baricentro, non si è trovata in difficoltà nella gestione dell’iniziativa degli avversari almeno quando è partita dal portiere.
Le difficoltà della Roma sono state rappresentate dalla sciagurata contrapposizione di tre o quattro specifiche azioni di ripartenza alla base delle quali c’è stato forse sì qualche piazzamento sbagliato (Hermoso…) ma che è stato principalmente favorito dalla buona predisposizione al palleggio dei giocatori in maglia gialla.
Il problema, dunque, non è aver concesso quelle due o tre ripartenze: se ci seguite nel paradosso, anche il Barcellona dei tempi belli, la squadra più forte che si sia mai vista su un campo di calcio, concedeva un paio di ripartenze a campo aperto agli avversari. La differenza è che il possesso palla garantiva agli uomini di Guardiola sette, otto, dodici palle-gol a partita che venivano quasi sempre trasformate in reti.
Eccola, dunque, la nota dolente: la scarsa efficacia offensiva riscontrata dall’attacco giallorosso. Mettete Soulé di questi giorni al posto di quel Messi, Shomourodov al posto di Suarez e Abdulhamid al posto di Dani Alves e probabilmente i tifosi blaugrana avrebbero festeggiato assai meno di quello che hanno fatto in quegli irripetibili anni.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICARE QUI
FONTE: Il Romanista – D. Lo Monaco