La richiesta del procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, è mite, è lui stesso a dirlo: «Mi sono occupato e mi occupo di reati più gravi, anche di altri sindaci. In questo caso ci sono le condizioni per le attenuanti generiche e la pena complessiva deve essere calcolata in dieci mesi». Non un atto di benevolenza, dunque, ma il riconoscimento che dal falso ideologico che avrebbe commesso il sindaco non sono derivati reati più gravi, come quasi sempre accade quando un amministratore pubblico cambia le carte in tavola. Si conclude così la requisitoria del processo in cui il sindaco di Roma, Virginia Raggi, risponde di falso in atto pubblico per aver dichiarato all’ufficio anticorruzione comunale, che aveva chiesto chiarimenti per conto di Anac, che fu lei a scegliere di promuovere Renato Marra a capo dipartimento e non il suo braccio destro (e fratello del vigile urbano) Raffaele. Una promozione che aveva fruttato al vigile un cospicuo aumento di stipendio ed era stata discussa con l’assessore al Turismo, Adriano Meloni, giusto mezz’ora prima che si chiudessero i termini per il concorso interno.
Per il pm Ielo non è vero che a decidere tutto fu Virginia Raggi da sola e che il suo braccio destro si era limitato a raccogliere i documenti: «Marra ci ha messo la manina ma la sindaca sapeva» e se la sindaca non ha ammesso che è stato lui a istruire l’intera pratica con cui era stato riorganizzato l’intero quadro dei dipendenti comunali è perché voleva «proteggere l’uomo fondamentale per far funzionare il comune, la chiavetta che metteva in moto il motore dell’amministrazione», l’uomo che conosceva segreti e problemi della giunta e dunque andava tutelato a tutti i costi. Non solo, dicono ancora Ielo e Dall’Olio, «tra gli elementi chiari, univoci e concordanti per sostenere che Raggi fosse assolutamente consapevole del ruolo in concreto svolto da Marra nella nomina del fratello», c’è anche un altro fattore: il sindaco temeva che se lui fosse stato accusato di abuso d’ufficio, nell’indagine sarebbe finita anche lei, col rischio che le fosse applicata la prima versione del codice di autoregolamentazione dei Cinquestelle, quello del 2016 che prevedeva le dimissioni anche per i semplici indagati. Proprio per questo, a sorpresa, hanno depositato anche quel regolamento particolarmente severo.
LA LINEA DI DI MAIO – È forse l’unico momento in cui il sindaco perde l’ottimismo con cui ha seguito l’intero processo. Esce di corsa dall’aula e quando rientra, pochi minuti dopo, chiede all’avvocato di poter rispondere agli inquirenti: «Voglio specificare che nella prassi l’espulsione non è mai stata applicata, sia Nogarin che Pizzarotti, indagati, non furono espulsi. Pizzarotti fu sospeso perché omise di comunicare che era stato iscritto nel registro», dice sostenendo poi – e finendo per scontrarsi con i pm che la smentiscono – che lei stessa era già indagata per un’altra vicenda nel corso della campagna elettorale. Al di là del battibecco in aula, sia il sindaco sia, soprattutto, il resto del Movimento Cinquestelle non nascondono l’ottimismo per la decisione che dovrà prendere il giudice monocratico, Roberto Ranazzi. Certo del fatto suo, Luigi Di Maio ha ripetuto anche ieri che in caso di condanna la carriera di Virginia Raggi si chiuderà in tempi brevi: «Non conosco l’esito del processo ma il nostro codice di comportamento parla chiaro e lo conoscete». L’attesa per la sentenza che dovrebbe arrivare oggi in serata è forte, si respira anche nell’aula di tribunale affollatissima. «Su questo processo ci sono troppi pesi, invece è giusto fare un processo come se questi pesi non esistessero. È il senso del lavoro del magistrato e del processo: la legge deve essere uguale per tutti», conclude Ielo. Un ulteriore macigno sulla scrivania del giudice.