La Roma ha trasformato il gioco delle tre carte nel gioco delle tre partite. Storia vecchia. Disco rotto. La solita sceneggiatura in cui ad un certo punto qualcuno, chissà chi, fischia e il gruppo smette di colpo di fare quel che stava facendo. Paralizzato, cristallizzato. Giovedì sera in Norvegia la Roma aveva iniziato giocando. Sempre a modo suo, per carità: ossia giocava quel suo gioco grigio e sporco.
Tuttavia per il livello della contesa era più che sufficiente, anche perché un pareggio sarebbe andato bene. Era bastata un’illuminazione di Mkhitaryan e Pellegrini, sodali efficaci nel breve volgere di un paio di secondi, per portarsi avanti. Poi la consueta nemesi: ciò che avrebbe dovuto fortificare e alzare l’attenzione ha in realtà assopito, smontato.
Insomma, invece di insistere ci si accartoccia. Quando la posta si alza, la Roma ha sempre i minuti contati. Nel secondo tempo si son viste gambe che non giravano più, la nebbia aveva invaso le idee, la fantasia, anche minima, era uscita dal campo.
Si sono aperte voragini davanti alla difesa e improvvisamente cinque giocatori del Bodø pareva che andassero a cento all’ora. E quando è così la Roma comincia a inanellare errori tecnici. Una condanna. Ieri Rui Patricio e quell’amnesia collettiva (ma forse si dovrebbe parlare di anestesia collettiva) che ha consentito il raddoppio su calcio piazzato. Il Bodø è il Bodø. Ma la Roma è la Roma.
Il sintetico non c’entra. Quindi c’è da preoccuparsi. Se vale la regola del gioco delle tre partite in una, delle tre anime sovrapposte, non è per nulla scontato che la settimana prossima si riesca a vincere con due gol di scarto, magari ai supplementari.
FONTE: La Repubblica – E. Sisti
https://youtu.be/ob3iHWdoMQ8