Per come sono andate le due gare, l’opinione più corretta l’ha fornita come al solito Daniele De Rossi in fase di commento: «Oggi il Bayer Leverkusen è più forte di noi e ha meritato di andare alla finale di Dublino». Dove il punto chiave dell’espressione deve riconoscersi in quell’avverbio di tempo. Oggi. Perché la superiorità dei tedeschi sulla Roma non è necessariamente di ordine tattico, né tecnico, né mentale, né fisico, forse un po’ di tutte queste componenti, forse nessuna.
Ma c’è un unico grande vantaggio su cui Xabi Alonso ha potuto contare rispetto a De Rossi: la possibilità di lavorare in profondità su una rosa prima ereditata e poi ricostruita. Daniele è all’inizio dell’opera e se ancora a qualcuno non dovessero bastare gli elementi già emersi in questi quasi quattro mesi di lavoro, allora dovrà necessariamente attendere la fine della prossima stagione per giudicare, esattamente quando avrà raggiunto l’arco di tempo appena maturato da Xabi Alonso alla guida del Bayer.
Se dunque – oggi – la Roma non è ancora a quell’altezza è solo per una questione di tempo. Poi chiaramente bisognerà lavorare in profondità non appena saranno chiari tutti i verdetti di questa stagione per rinforzare la squadra e non indebolirla, sempre in attesa che venga annunciato il nome del prossimo direttore sportivo e che si chiariscano i destini dei diversi giocatori in bilico. Ma ci sarà tempo per parlarne.
Qui invece c’è una partita da analizzare che da una parte ha nuovamente mostrato i limiti della squadra su cui De Rossi sta lavorando dal 16 gennaio e dall’altro ha comunque evidenziato i tratti di solidità su cui continuare a fare affidamento. La domanda delle domande a cui ci guardiamo bene di dare una risposta è se De Rossi abbia fatto bene o male a schierare nuovamente la squadra con la difesa a tre a Leverkusen e se abbia o meno azzeccato i cambi in corso d’opera.
Dire che cosa sia giusto e sbagliato nel calcio, quando si ha come unica possibilità quella di parlare dopo gli eventi, è facilissimo: tutto ciò che viene premiato dal risultato di solito si considera giusto, e viceversa. Ma se si vuole approfondire un’analisi allora si raggiunge un’altra certezza: che tutto ciò che conta è capire ciò che un allenatore abbia cercato di fare e poi da lì farsi un’idea se quel tecnico sia più o meno degno di meritare la nostra stima o la nostra ammirazione. E, per quanto ci riguarda, De Rossi ha pienamente l’una e l’altra cosa. Anche se la sua scelta tattica per la sfida col Bayer non ha pagato in termini di prestazione, ma per un po’ lo ha fatto in termini di risultato.
Partiamo da un presupposto: che cosa voleva fare Ddr schierando la difesa a tre, con Angeliño e Spinazzola sul doppio binario a sinistra con l’apporto di Pellegrini, Lukaku e Azmoun in attacco, e una catena di destra formata su Mancini, El Shaarawy e Cristante, tenendo Ndicka al centro della difesa e Paredes in cabina di regia? La sua idea, opposta a quella di Xabi Alonso all’andata, era di obbligare gli avversari a rinunciare alle marcature uomo su uomo sui due attaccanti centrali, per spingere così a tenere basso anche il terzo difensore del Bayer, con conseguente vantaggio numerico in mezzo al campo.
Questa idea ha pagato nel primo quarto d’ora, finché è rimasto in campo Spinazzola, quando la Roma aveva una forma offensiva tale da impedire il palleggio agli avversari, e li obbligava a rinculare per evitare di regalare doppie superiorità numeriche. In fase di non possesso, come si può notare nella grafica qui sotto, De Rossi non ha avuto paura di mandare i proprio giocatori invece in pressione personalizzata individuale, con Angeliño spinto senza alcuna preoccupazione nella zona centrale della metà campo avversaria pur di tenere da vicino Hofmann, il teorico attaccante di destra dello schieramento offensivo di Xabi. Obbligando ad esempio una squadra paziente come il Bayer a rinunciare a volte alla costruzione dal basso favorendo il rinvio lungo del portiere. E per un po’ le cose hanno funzionato.
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FONTE: Il Romanista – D. Lo Monaco