C‘era Franco Causio il Barone. C’era Claudio Sala il Poeta. E poi, anzi prima in ordine di genio, c’era Bruno Conti il MaraZico, come si spinsero a qualificarlo shakerando i picchi artistici di Maradona e Zico, i meglio piedi su piazza. In quei tempi nessuno si sentiva minorato chiamando questo genere di giocatore ala, tra parentesi un’immagine sublime, qualcosa di etereo che fa decollare la squadra. Poi l’adanismo, poi i telegeometri con i loro neologismi evoluti (?), fino a dire che adesso Bruno Conti sarebbe un esterno, offensivo controsenso, perchè l’esterno evoca qualcosa o qualcuno fuori da tutto, mentre quel genere di talenti era dentrissimo, nella centralina del gioco, tra velocità, agilità, dribbling e soprattutto tanta, tanta, tanta fantasia (l’ho detta, so che oggi è blasfema, pago la penale e dico tre pater ave gloria).
Bruno Conti bisognava sempre dirlo tutto per esteso perchè nella Roma bazzicava il portiere Paolo Conti e in qualche modo andavano distinti. Anche se oggi diventa un settantenne gajardo, lui certo perdonerà noi ancora e sempre fermi al Mundial dell’82, l’estate in cui non siamo mai stati così giovani. Di quel luglio la memoria e i libri sono pieni zeppi di simboli intoccabili, l’urlo di Munch però di Tardelli, il presidente Pertini che esulta in faccia al re di Spagna, la pipa di Bearzot, Zoff che alza la Coppa… Ma sarebbe scandalo e delitto se in questa galleria favolosa dell’indimenticabile non ci fosse un posto per Bruno Conti, il tappo di Nettuno, più capigliatura che il resto, un metro e virgola di tecnica eccelsa, capace là sulla fascia di mettere in piedi ogni volta una Disneyland di effetti speciali, con quei poveri disgraziati dei terzini (diamine, ho detto anche terzini, pago seconda penale e altri tre pater ave gloria), quei poveri disgraziati dei terzini a diventare matti per metterci un argine, un freno, un filtro, in finale quel panzer ipertrofico di Briegel, ben noto in Italia, ma niente, palla a Bruno Conti e via, dribbling da ubriacare come mohiti stracarichi, cross a tagliare difese come burro, qualcosa veniva sempre fuori, nella finale il rigore d’apertura sbagliato orrendamente da Cabrini, sul finire la palla ad Altobelli per il terzo gol tombale.
Bruno Conti era quello, il diamante nella collana d’oro della formazione mondiale, il tappo immarcabile con la postura fatta e finita di Speedy Gonzales, padrone della fascia, padrone del campo, padrone del calcio. Lui con gli altri, ma lui in modo pesante e decisivo con le sue fughe che strappavano, ci regalò un’estate mai più dimenticata, quel batuffolo di tenerezza che ad anni e anni di distanza ogni volta tampona l’anima. Anche quella volta, immancabilmente, l’Italia caricò sul trionfo sportivo una caterva di significati spropositati, del genere nuovo rinascimento, proprio così, come poi abbiamo sentito trilioni di volte per una Luna Rossa o un oro olimpico.
Svalvolate di popolo senza senso e senza significato, perché per fortuna (o per sfortuna) i destini di una nazione non dipendono da un trofeo. Però, però. E però la vita di una nazione può prendersi una vacanza di felicità, finchè dura, finchè resiste, chiudendola nel forziere dei sorrisi a futura memoria. Quella volta, dopo un’estate nelle fontane, dopo i deliri di spiaggia, arrivò settembre e subito il fatato 1982 diventò il lugubre 1982: a Palermo trucidarono il generale Dalla Chiesa e la sua giovane signora, richiamandoci brutalmente alla realtà. A luglio non eravamo mai stati così giovani, due mesi dopo non ci eravamo mai sentiti così vecchi.
Bruno Conti sta dentro quella storia e lì noi l’abbiamo dolcemente lasciato. Anche ingiustamente, certo. Perché lui ha continuato a vivere una vita degna anche dopo, una vita tutta core de Roma, mezzo secolo senza tradire mai, molto prima di Totti, molto prima di De Rossi, anzi lui De Rossi l’ha fatto giallorosso prendendolo col biberon nel settore giovanile, lui da dirigente ha preso pure Ranieri allenatore molto prima dei Friedkin: questo per dire che forse, dovendo tirare su monumenti, il vero monumento in tinta giallorossa tocca proprio a Bruno Conti, perchè nessuno è stato più figlio della Lupa.
Poi si sa, bisogna anche vendersi bene, in questa società poca sostanza e tutta apparenza. E solo qui forse starebbe il limite del personaggio, comunque bellissimo pregio della persona. È una sua riservatezza, un suo decoro, una sua capacità di tacere, senza spacciarsi mai per quello che non è, tanto meno saccente e saputo.
In questa età della ragione, gli è toccato anche il Briegel della malattia, il tumore al polmone che non ha bisogno di spiegazioni. A settant’anni, può festeggiare dicendo questo: «Ora sto bene, è tutto a posto. Mi è riuscito un altro dribbling…». La sua festa è la nostra festa. La vecchiaia può attendere, Bruno Conti è immarcabile, le sta già scappando via sulla fascia.
FONTE: Il Corriere dello Sport – C. Gatti